Con l’espressione “Scuola di Francoforte” si fa riferimento ad un gruppo di intellettuali che lavoravano all’Istituto per la ricerca sociale fondato nella cittadina tedesca nel 1923.
I protagonisti più noti di questa esperienza furono filosofi (Horkheimer, Adorno e Marcuse), economisti (Grossmann, Pollock), psicologi (Fromm), sociologi (Wittfogel, Löwenthal) e politologi (Neumann).
Alla cerchia allargata degli studiosi che ebbero rapporti con l’Istituto appartiene anche Benjamin.
L’ascesa del nazismo costrinse gli esponenti dell’Istituto ad abbandonare la Germania, dapprima trasferendosi in Svizzera e quindi, a partire dal 1940, negli Stati Uniti, dove l’Istituto venne accolto dalla Columbia University di New York.
L’uomo ad una dimensione
Tra la copiosa produzione della Scuola, L’uomo ad una dimensione di Herbert Marcuse (1964) diventerà uno dei testi di riferimento del movimento del ‘68.
Marcuse sottolinea come l’uomo della società industriale avanzata sia omologato alle esigenze del sistema economico e sociale – un sistema di fatto totalitario perché ne amministra l’intera esistenza riducendola ad una sola dimensione.
Nell’illusione di scegliere, i cittadini vengono indirizzati verso desideri, necessità, aspirazioni ricondotti a merce di consumo.
Anche la democrazia appare svuotata di contenuto, ponendosi in modo autoreferenziale e non rappresentativo, ed eliminando ogni forma di opposizione grazie alla capacità di soddisfare la richiesta di beni che esauriscono culturalmente le aspettative dei cittadini.
Una società senz’altro più ricca di quelle che l’hanno preceduta, ma infinitamente meno libera.
Riportiamo alcuni passi del testo, che riteniamo tutt’oggi straordinariamente attuali.

Il totalitarismo mascherato da democrazia
L’indipendenza del pensiero, l’autonomia e il diritto all’opposizione politica sono private della loro fondamentale funzione critica in una società che pare sempre meglio capace di soddisfare i bisogni degli individui grazie al modo in cui è organizzata.
Una simile società può richiedere a buon diritto che i suoi principi e le sue istituzioni siano accettati come sono, e ridurre l’opposizione al compito di discutere e promuovere condotte alternative entro lo status quo.
Il regime “totalitario”, infatti, non si applica soltanto ad una organizzazione politica terroristica della società, ma anche ad una organizzazione economico-tecnica, non terroristica, che opera mediante la manipolazione dei bisogni da parte di interessi costituiti.
Non soltanto una forma specifica di governo (…) ma pure un sistema specifico di produzione e di distribuzione, sistema che può essere benissimo compatibile con un “pluralismo” di partiti, di giornali di “poteri controbilanciati” ecc.
Beni in cambio di consenso
L’efficienza del sistema ottunde negli individui la capacità di riconoscere che esso non contiene fatti che non siano veicolo del potere repressivo nell’insieme.
E a mano a mano che questi prodotti benefici sono messi alla portata di un numero crescente di individui in un maggiore numero di classi sociali, l’indottrinamento di cui essi sono veicolo cessa di essere pubblicità: diventa un modo di vivere.
Le persone si riconoscono nelle loro merci; trovano la loro anima nella loro automobile, nel giradischi ad alta fedeltà, nella casa a due piani, nell’attrezzatura della cucina.
Lo stesso meccanismo che lega l’individuo alla sua società è mutato, e il controllo sociale è radicato nei nuovi bisogni che esso ha prodotto.
Il risultato è l’atrofia degli organi mentali necessari per afferrare contraddizioni ed alternative, e nella sola dimensione che rimane, quella della razionalità tecnologica, la “coscienza felice” giunge a prevalere.
La fine di ogni opposizione critica
Essa riflette la credenza che il reale è razionale, e che il sistema stabilito, nonostante tutto, mantiene le promesse. Gli individui sono portati a scorgere nell’apparato produttivo l’agente effettivo del pensiero e dell’azione, a cui pensiero e dazione del singolo possono e debbono cedere il passo.
Nel cambio, l’apparato assume pure il ruolo di un’agente morale. La coscienza è assolta dalla reificazione, dalla generale necessità delle cose.
Quel che sto cercando di dire è che la scienza, in virtù del suo metodo e dei suoi concetti, ha progettato e promosso un universo in cui il dominio della natura è rimasto legato al dominio dell’uomo – legame che rischia di essere fatale a questo universo intero.
La Natura, scientificamente compresa e dominata, ricompare nell’apparato tecnico di produzione e distruzione che sostiene e migliora la vita degli individui nel mentre li assoggetta ai padroni dell’apparato. Così la gerarchia razionale si fonde con quella sociale.
Se le cose stanno veramente così, allora un cambiamento in direzione progressista, tale da poter tagliare questo vincolo fatale, influirebbe anche sulla struttura propria della scienza, sul progetto scientifico.
Le sue ipotesi, senza perdere nulla del loro carattere razionale, si svilupperebbero in un contesto sperimentale essenzialmente diverso (quello di un mondo pacificato).
Il fine giustifica i mezzi
La follia del tutto giustifica le follie particolari e trasforma i delitti contro l’umanità in un’impresa razionale.
Quando il popolo, stimolato ad arte dalle autorità pubbliche e private, si prepara a vivere in regime di mobilitazione generale, esso mostra d’esser ragionevole non soltanto a causa della presenza del Nemico, ma pure a causa delle possibilità di investimento e d’occupazione offerte dall’industria e dalle attività di divertimento.
Anche i calcoli più folli appaiono razionali: annientare cinque milioni di persone è preferibile che non annientarne dieci milioni, o venti, e così via. È futile obbiettare che una civiltà che giustifica la propria difesa con un calcolo del genere proclama la propria fine.