venerdì, Aprile 18, 2025

Tracce di crimini d’odio

 

Ecco come l’odio in Rete, apparentemente cosi distante, ininfluente, raggiunge la realtà fisica-sociale, concretizzandosi in forme di violenza, non solo verbale.

L’attacco sui fedeli usciti dalla Moschea,  questa notte a Londra, ne è un esempio. O almeno cosi sembra..

Un uomo si sarebbe scagliato con il suo furgone contro un gruppo di persone uscite da una Moschea dopo la preghiera, investendo alcuni fedeli e gridando di voler uccidere tutti i musulmani.

Il bilancio per ora è di un morto e dieci feriti.

Per il Muslim Council of Britain, punto di riferimento istituzionale della numerosa comunità islamica del Regno Unito, non ci sono del resto mai stati dubbi: quelle persone sono state colpite «deliberatamente», aveva denunciato l’organizzazione quasi subito in una nota, per poi rincarare la dose ed evocare «una violenta manifestazione d’islamofobia», con la richiesta alle autorità di garantire maggiore «protezione alle moschee».

Il sindaco di Londra, Sadiq Khan, ha condannato il «terribile attacco terroristico contro persone innocenti».

I crimini generati dall’odio o più semplicemente i crimini dell’odio, dall’inglese “hate crimes”, ricomprendono tutte quelle violenze perpetrate nei confronti di persone discriminate in base ad appartenenza vera o presunta ad un gruppo sociale, identificato sulla base, dell’etnia, della religione, dell’orientamento sessuale, dell’identità di genere o di particolari condizioni fisiche o psichiche.

Il Regno Unito non ha una legislazione chiara in merito.

Tuttavia poco tempo fa è stato varato un nuovo regolamento dalla polizia della Greater Manchester che equipara le discriminazioni in base alla “subcultura” di appartenenza a quelle fatte per razza, religione, disabilità e orientamento sessuale, facendole rientrare quindi nella categoria dei crimini d’odio.

La serie di attentati terroristici di stampo jihadista, stanno creando, in questi ultimi anni, una forte percezione d’insicurezza all’interno delle comunità di tutto il mondo, evidenti tentativi di ricostruire confini fisici e culturali, gruppi tribali, “muri” psico-emotivi.

Forme di chiusura che però, in un mondo globalizzato, diventano difficili da mettere in pratica ed ecco che la violenza diventa cosi uno strumento di auto-difesa, un modo per cercare a tutti i costi una giustificazione ai disastri che caratterizzano la nostra quotidianità, un nemico da eliminare ( il musulmano, in questo caso) etichettato subito come un terrorista, responsabile delle numerose morti, esclusivamente sulla base del suo credo religioso e/o modo di vestire.

Tutto ciò ci costringe quindi ad un continuo confronto con noi stessi, con le Istituzioni, di conseguenza emerge un sentimento di malessere ed insicurezza sociale, che non possono essere esorcizzate facilmente come spiriti maligni. Il rischio è di ritrovarsi a combattere contro tutto e  tutti.

Attenzione però, che l’uso della parola “odio” puo’ trarre in inganno e far ritenere che l’indagato debba provare un sentimento di odio verso la vittima o il gruppo cui essa appartiene, affinché il reato possa rientrare nel concetto di crimine ispirato dall’odio. Non è cosi.

Il fattore che trasforma un reato comune in un crimine ispirato dall’odio è il processo di selezione della vittima da parte dell’autore dell’illecito, che deve essere basato sulla discriminazione o sul pregiudizio verso il gruppo cui essa appartiene.

Ecco che tentare prima di tutto di costruire un racconto giornalistico chiaro, meno spettacolarizzato e un’analisi chiara ed efficace su tematiche cosi complesse come immigrazione, insicurezza sociale e terrorismo, significa innanzitutto conoscere ed informarsi, confrontarsi quotidianamente sui fenomeni sociali e politici, elaborare e riflettere su nuove e vecchie teorie e percezioni, incoraggiare a ri-considerare nuove analisi e letture del sociale.

Significa ,allo stesso tempo, spogliarsi almeno per un attimo di tutti quei luoghi comuni, linguaggi d’odio e paure che caratterizzano la nostra quotidianità, la nostra politica, la nostra cultura e che nel tempo si sono rafforzate; luoghi comuni, semplici pre-concetti che si sono alimentati nel tempo attraverso propagande, false emergenze e narrazioni mediatiche che ripropongono un’idea distorta della realtà.

Solo in questo modo potremo tentare di dare una lettura più oggettiva possibile al complesso fenomeno in analisi e provare cosi a riconoscere l’Altro come “soggetto sociale”, mettendo in pratica un tipo di comunicazione-relazione fondata sull’empatia, che rifiuta i luoghi comuni.

Giacomo Buoncompagni
Giacomo Buoncompagni
Buoncompagni Giacomo. Aspirante giornalista scientifico. Laureato e specializzato in comunicazione pubblica e scienze sociali -criminologiche. Collaboratore di Cattedra presso l'Università di Macerata. Presidente provinciale Aiart Macerata. E' autore di "Comunicazione criminologica" e "Analisi comunicazionale forense" (2017)

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