Riprendo l’odiosa polemica che ha – suo malgrado – coivolto il nuovo ministro per le politiche agricole Teresa Bellanova in riferimento al suo titolo di studio. A leggere alcuni commenti, essersi fermati alla terza media, infatti, sembra costituire un elemento di incompatibilità rispetto alla alta carica istituzionale assunta (non mi soffermo a condannare i commenti legati al suo aspetto fisico o al modo di vestire per non dare importanza a chi li ha espressi).
È un giudizio curioso, in un Paese nel quale il numero di laureati è uno tra i più bassi d’Europa: in fondo dai politici potremmo anche aspettarci una reale coincidenza con l’istruzione della popolazione che rappresentano (come in effetti mi pare che sia). Ma, aldilà del relativo peso degli sfoghi amplificati dai social e dei media che li riprendono, è noto che l’occhio dei farisei cada sempre su qualche caratteristica a cui attribuire un valore negativo: se il ministro fosse stato allievo di Franco Modigliani (l’economista, il pittore si chiamava Amedeo) qualcuno avrebbe detto che si trattava di una raccomandata. Però – per quanto odiosa, la polemica apre lo spazio per alcune considerazioni.
Teresa Bellanova non ha studiato; ha cominciato a fare la bracciante a quattordici anni e da allora si è occupata, lavorando, di difendere i diritti di una categoria di lavoratori particolarmente debole e sfruttata, e con un certo successo, direi. Per un politico – che, come scritto in un precedente editoriale www.periodicodaily.com/la-scomparsa-della-politica deve occuparsi di indicare ai tecnici gli obiettivi che si propone di realizzare – non mi pare un curriculum inadeguato.
Ma purtroppo siamo abituati a valutare le persone in base alla posizione – sociale, e conomica – che occupano, quando invece dovremmo, per esprimere un giudizio sensato, cercare di ricostruire il loro percorso professionale, oltre che personale. Perchè gran parte di quella che abitualmente definiamo “classe dirigente” nasconde, anche dietro curricula prestigiosi, una storia individuale caratterizzata da buone relazioni capaci di introdurli ai vertici di aziende, università o amministrazioni pubbliche, più che da capacità effettive. Percorsi che rappresentano lo specchio di una società nella quale la divisione tra classi resta la principale variabile nella traiettoria di vita delle persone. Il mercato del lavoro, anche ai livelli più bassi, è infatti influenzato in modo determinante proprio dalla rete di conoscenze in grado di garantire (o escludere) le persone da un impiego; figuriamoci per le professioni più prestigiose o remunerate.
Questo per dire che, personalmente, sono più disposto a dare credito ad una storia di vita come quella della signora Bellanova, che ad un manager laureato in una prestigiosa università basandomi solo sul suo titolo di studio. Anche perché – è una delle consapevolezze maturate come studente lavoratore e poi come docente universitario – la laurea, in primo luogo, rappresenta per la quasi totalità degli studenti la possibilità che hanno avuto di studiare grazie al sostegno delle loro famiglie, senza peraltro doversi privare di niente. E che il solo possesso del titolo non può rappresentare in sé una garanzia, né di conoscenza, e tanto meno del possesso di tutte quelle capacità che permettono ad una persona di fare bene il proprio lavoro (tra le quali un posto di rilievo lo occupa l’umiltà). Piuttosto, data la condizione di privilegio, il suo conseguimento credo che debba essere inquadrato, più che alla stregua di un titolo di merito, come un preciso dovere di restituire alla comunità un contributo adeguato a quanto è stato ricevuto.
L’argomento è vasto, e spazia dai percorsi di istruzione informale a quanto attiene alle varie declinazioni dell’intelligenza (in particolare quella emotiva); e naturalmente in nessun modo svaluta l’importanza di conseguire titoli di studio di qualunque grado, poiché ritengo essenziale l’acquisizione di strumenti in grado di interpretare la propria esperienza di vita. Ma a coloro che – laureati e non – hanno ritenuto opportuno eccepire sul curriculum del neo-ministro (di cui valuteremo il suo operato nel corso del tempo, com’è giusto), voglio comunque ricordare un precedente illustre, peraltro persino attinente per ambito: Giuseppe di Vittorio.
Sindacalista, partigiano, deputato – anche lui dovette abbandonare la scuola da bambino per impiegarsi come bracciante nelle campagne pugliesi dopo la morte del padre. Sin dall’adolescenza fu in prima fila per rivendicare i diritti dei lavoratori, in un tempo nel quale la polizia e i carabinieri sparavano sui manifestanti senza pensarci due volte. I suoi sforzi sono stati fondamentali per la costituzione di un’organizzazione sindacale moderna, nata da una profonda rivoluzione civile capace di creare sul territorio vincoli di solidarietà tra persone anche di ceti diversi. Fu membro dell’Assemblea Costituente, poi del parlamento, fornendo un contributo importante alla ricostruzione della società dopo la tragedia della guerra e del fascismo, al pari di altri suoi colleghi laureati, ma non per questo migliori o peggiori di lui.
Calma e gesso, quindi, quando si tratta di giudicare una persona dai suoi titoli formali; la conoscenza è solo uno strumento che solo le migliori doti umane sono in grado di valorizzare; e l’accesso allo studio, e ancor di più alle professioni a cui si applica, ancora oggi in Italia è qualcosa riservato a pochi: per questo non può costituire elemento di valutazione. Parafrasando Don Milani, i cretini e gli svogliati non nascono solo nelle case dei più poveri.