Il rischio degli effetti avversi di qualunque farmaco è accettabile solo se la sua assunzione è giustificata da una valutazione dei rischi rispetto ai benefici.
Statisticamente accettabile
In questi ultimi due anni abbiamo fatto l’abitudine all’interpretazione dei grandi numeri che rappresentano le diverse incidenze su ampia scala.
Abbiamo familiarizzato con indicatori che solitamente sfuggono all’attenzione dell’opinione pubblica. Comparato le diverse cause di morte. Siamo stati indotti a valutare se tot casi su centomila rappresentano un rischio “accettabile”.
Molti hanno messo in relazione i possibili effetti collaterali contenuti nel bugiardino di comuni farmaci da banco con quelli dei vaccini.
Si è parlato di eventi avversi “statisticamente accettabili”.
Il contesto
In questo clima di drammatica approssimazione – nella comunicazione e di conseguenza nella valutazione delle informazioni a disposizione – il grande assente è rappresentato dal contesto.
Nel senso che la discussione, da subito (come sempre accade quando si semplifica arbitrariamente la complessità), si è polarizzata su posizioni estreme collocate all’interno di altrettanto arbitrarie generalizzazioni.
Intanto si è paragonato la recente pandemia ad alcuni casi storici che differivano profondamente, come l’influenza spagnola, il vaiolo e persino la peste.
Conseguentemente, facendo un balzo indietro di oltre cinquanta anni, si sono rinnegati i progressi fatti nella direzione di una medicina sempre più a misura di paziente.
Il vaccino, invocando questi drammatici precedenti, è stato imposto come unica soluzione per superare questo momento di difficoltà, anche se ci eravamo presto accorti che la popolazione esposta alle gravi conseguente non coincideva col totale, ma aveva precise caratteristiche di fragilità.
Il coronavirus non è il vaiolo
Il covid-19 è in grado di provocare conseguenze gravi, persino mortali, ma non ha le caratteristiche del vaiolo (a cui qualcuno ha fatto riferimento per giustificare la campagna vaccinale).
Non è il vaiolo, e neppure la peste, nel senso che gli esiti che produce sono correlati alla fragilità di chi ne è colpito, diversamente ad altri virus del passato che mettevano in pericolo la vita di chiunque veniva contagiato.
Contrarre il virus non equivale ad una sentenza nella quasi totalità dei casi. Questa evidenza non può non essere considerata nel calcolare il rapporto costi/benefici di una vaccinazione che, non è più possibile negarlo, ha margini di rischio, nel presente e nel futuro.
Ma, per oltre un anno, anziché cercare di mettere in sicurezza chi realmente era (ed è tutt’oggi) a rischio, è stata scelta la strategia di considerare tale tutta quanta la popolazione, in Italia come nel mondo.
Introducendo, come purtroppo ci racconta la cronaca, nuovi fattori di rischio, nel presente con una opzione per il futuro, specie nei più giovani.
Le leve del potere: paura, richiamo alla responsabilità, libertà
L’imposizione del vaccino, a livello culturale e infine normativo, si è basata su tre fattori:
Innanzi tutto la paura, estendendo, come detto, all’intera popolazione, oltre ogni evidenza riscontrata, il presunto rischio di effetti gravi o addirittura letali legati alla malattia.
Quindi la responsabilità verso gli altri nella diffusione del contagio. Peccato che non siamo certi del fatto che il vaccino impedisca al soggetto di trasmettere la malattia (infatti le norme igieniche restano le stesse, sia per i vaccinati che per i non vaccinati, secondo quanto riporta l’ISS)
“Anche dopo essersi sottoposti alla vaccinazione si dovrà continuare a osservare le buone pratiche di prevenzione e protezione attualmente previste, come indossare la mascherina, lavare spesso e accuratamente le mani e mantenere il distanziamento fisico. Questo finché i dati sull’immunizzazione non evidenzieranno con certezza che oltre a proteggere sé stessi il vaccino impedisce anche la trasmissione del virus agli altri e si arriverà a superare la pandemia in atto.”
https://www.salute.gov.it/portale/nuovocoronavirus/archivioFakeNewsNuovoCoronavirus.jsp
Infine la libertà: vaccinarsi per poter andare in vacanza o al matrimonio di un amico, dopo un anno e più di restrizioni, rappresenta una motivazione sufficientemente forte per andare oltre considerazioni di ordine medico.
Colpevolmente, però, l’informazione diffusa ha omesso di ricordare che le terapie intensive sono sotto pressione tutti gli inverni a causa dell’influenza.
E anche di non accorgersi dei 10mila morti per le complicanze dell’influenza del 2019 (indicativamente tutte persone fragili, lo stesso target del covid e di altre malattie: oggi sappiamo che, se avessimo indossato mascherine protettive recandoci in visita nelle RSA, ospedali o anche solo nelle case di anziani o malati, questo numero sarebbe significativamente inferiore).
Quello che due anni fa era socialmente accettabile (e forse non avrebbe dovuto esserlo), oggi ci sensibilizza a drastiche misure di prevenzione.
Statisticamente accettabile?
Il tema, come detto, è quello di contemperare i rischi (o i costi) con i benefici. Di assumere una terapia solo se è necessario, tanto più se si tratta di un medicinale in via di sperimentazione.
Sbaglia, e lo fa dolosamente, chi riduce tutto ad una contrapposizione tra opinioni diverse. Intanto perché non si tratta di essere contro a favore dei vaccini, ma di utilizzarli nel modo migliore. E parificare il vaiolo o la poliomelite al covid è intellettualmente disonesto.
Senza contare che non è la scienza che decide chi si vaccina o come, ma la politica; la stessa che detta le regole per limitare gli spostamenti (in funzione, non si sa bene come, del contagio).
Abbiamo già parlato diffusamente di questa arbitraria contrapposizione. Non occorre tornarci sopra.
Non una pandemia, ma una sindemia
Alcuni, come il professor Franco Berrino, non ritengono il covid una pandemia, ma una ma una sindemia, ovvero due pandemie che si sovrappongono, facendo riferimento ad una pandemia metabolica in atto tutto l’occidente, dove si riscontrano sempre più casi di obesità addominale, ipertensione, dislipidemia, colesterolo alto, glicemia elevata – tutti fattori predisponenti all’ammalarsi con esiti gravi.
https://www.ilgiorno.it/cronaca/covid-alimentazione-berrino-1.6291712
Le domande che non possiamo non porci
Le domanda che la cronaca, dolorosamente, portano alla nostra attenzione (e non è la prima volta) non possono essere eluse.
Non si venga a dire che uno, tre, cinque e venti casi di trombosi indotta dal vaccino su milioni di somministrazioni rappresentano un rischio accettabile. Lo sarebbe se la somministrazione del farmaco fosse strettamente necessaria. Davvero non è possibile fare una riflessione in questo senso?
La morte di una persona giovane dopo la somministrazione di un vaccino che abbiamo già visto provocare effetti avversi gravi, una persona che – dati alla mano – non avrebbe avuto problemi anche contraendo la malattia, può essere ritenuta “statisticamente accettabile?”.
Perché, in un Paese a welfare avanzato come il nostro, non si punta principalmente sullo sviluppo delle cure, anche adeguando i protocolli domiciliari all’esperienza dei medici di base (quante morti potremmo attribuire alla “vigile attesa” tutt’ora raccomandata dall’AIFA?).
Qual è il motivo per il quale si preferisce perseguire in una strategia adatta ad altri tipi di virus o a popolazioni dove la sanità è assente (e gli effetti collaterali sono a priori inferiori a quelli diretti del contagio)?
E perchè non si lavora con maggiore forza sulla prevenzione, con l’obiettivo di ridurre la diffusione di obesità, ipertensione, tabagismo e alcoolismo: tutti fattori predisponenti la malattia, compresi gli effetti più gravi del covid?
Il vaccino è senz’altro uno strumento prezioso a contrasto del virus, ma, come per tutti i farmaci, solo se utilizzato nel modo migliore. E chi chiede questo non può essere liquidato come “negazionista”, tanto meno oscurato dai media, oltre che non rappresentato all’interno delle autorità sanitarie e politiche che decidono il nostro destino.