venerdì, Aprile 18, 2025

Siamo tutti afgani, ma solo oggi e per pochi giorni

Sino alla metà del XX secolo, le notizie erano diffuse dai giornali e dalla radio. Il basso livello di alfabetizzazione – assieme ai limiti imposti dalla censura degli editori – trovava come unico elemento di mediazione l’appartenenza politica.

La mediazione culturale dei partiti

Le generazioni di quegli anni, più che informarsi, tendevano ad allinearsi all’interpretazione dei partiti in cui si riconoscevano.

Erano gli anni della grande contrapposizione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista. La complessità della politica internazionale si risolveva nella disputa tra il modello di sviluppo capitalista e il socialismo reale. Quella della politica interna, tacendo i compromessi che inevitabilmente contaminavano queste due visioni della società.

La militanza totalizzava l’intera esperienza sociale, delineando appartenenze a cui ognuno (anche al di fuori dei due grandi partiti di massa) poteva aderire.

La politica a lungo ha permesso a chiunque di non sentirsi culturalmente isolato, favorendo persino il persistere di un clima cattiva informazione, ma anche la scarsa crescita individuale.

L’obiettivo, dichiaratamente, era – come oggi – quello di orientare i voti. E le persone, da sempre, meno sono capaci di sviluppare un pensiero critico, più facilmente sono manipolabili.

La televisione

Poi, con l’avvento della televisione, il fronte dell’informazione si è spostato in avanti, sempre più vicino al pubblico.

Il partito di governo dei primi cinquanta anni della Repubblica (che aveva da subito assunto il controllo della RAI), non riesce ad arginare la trasformazione dell’informazione in merce.

Il politico diviene un personaggio pubblico, e il suo gradimento passa anche dalla sua capacità di padroneggiare la sua presenza sul piccolo schermo che a poco a poco è presente nelle case di tutti gli italiani.

Il dibattito prende il posto della conferenza stampa, il commento della notizia.

Negli anni ‘80 Mediaset diviene la grancassa del partito-azienda di Berlusconi, appoggiandolo quando è al governo, o facendo opposizione attraverso un’informazione finalizzata ad evidenziare la cattiva gestione degli avversari.

Non sono più i partiti che spiegano al cittadino-elettore le scelte di Cuba o quanto avviene alla FIAT, ma le immagini della televisione. L’informazione si fa più capillare, ma gli strumenti per elaborarla restano gli stessi. Dolosamente.

I social

Il punto di non ritorno avviene con la diffusione dei social, che in pochi anni monopolizzano le comunicazioni di massa, grazie alla loro capacità di rispondere a diversi bisogni delle persone: non solo esprimersi quanto sentirsi parte di una comunità, seppure transitoria o fondata su un unico, occasionale, elemento comune.

Le bacheche di Facebook si svuotano di foto delle vacanze e divengono arene di confronto tra chi giudica una notizia di cronaca, un provvedimento di politica economica, o quant’altro.

Giudicare è divenuto un atto compulsivo da cui non è possibile esimersi, senza distinzione tra pubblico e privato; così come intervenire sempre e comunque, magari commemorando, indifferentemente, il parente o il personaggio pubblico scomparso.

Segretamente immedesimandosi nel ruolo di opinion leader: peccato che social come facebook siano frequentati da un paio di miliardi di persone che si reputano tali, in realtà a loro volta orientate da un ristretto team in grado – loro sì – di creare tendenza.

L’informazione su misura

Con la televisione – e i giornali – una riflessione sulle fonti da cui provenivano le notizie era più intuitivo. Fatta salva (generosamente) la buona fede, leggere l’Unità o l’Avvenire, oppure seguire il TG1 e il TG4 già connotava l’orientamento del pubblico.

Oggi, invece, i social, attraverso un algoritmo, filtrano gli infiniti messaggi in virtù degli orientamenti che abbiamo espresso noi stessi, permettendoci di ricevere solo informazioni che rafforzano le nostre convinzioni, generando così una spirale di radicalizzazione del pensiero individuale.

La fine dei dubbi

Esporsi pubblicamente richiede o grande competenza o grande incoscienza. In ogni caso, determina la fine di quella che è l’unica, vera radice del ragionamento: il dubbio.

Ognuno, in questa folle corsa a prendere posizione, si arroga la presunzione di un’opinione, finendo inevitabilmente col cadere nella trappola dell’aderire a quella dominante (o ritenuta tale perché veicolata con forza).

Perché l’opinione dominante permette non solo di non argomentarla, ma anche di sentirsi parte di un gruppo intrinsecamente forte.

Come in ogni epoca, fare proprie le posizioni condivise da altri è il modo migliore per non sentirsi isolati e rimanere fuori dai guai. Che siano sbagliate, poco importa; parafrasando Craxi: tutti colpevoli, nessun colpevole.

Scambiare la causa con l’effetto

Qualche anno fa, improvvisamente, sentimmo il bisogno di modificare la foto del nostro profilo Facebook aggiungendo il logo “siamo tutti Charlie Hebdo”; aldilà della condanna assoluta del gesto terroristico (e soprattutto la pietà umana per le vittime), un meraviglioso esperimento sociale per vedere quanti – che non avevano mai sentito parlare della rivista – avrebbero aderito.

Per colmo di paradosso solo l’anno seguente una vignetta sul terremoto di Amatrice fece bruscamente cambiare opinione a molti simpatizzanti dell’ultima ora, i quali si affrettarono ad affermare che “non erano (piu?) Charlie Hebdo”. Altro esperimento sociale riuscito.

Oggi siamo tutti afgani, e lo saremo fino a quando le prime pagine dei giornali non parleranno d’altro. Peraltro senza mai essere stai curdi, eritrei e tanto meno libici: tutti popoli perseguitati, ma fuori dai riflettori (oppure messi in cattiva luce come “clandestini”). Chissà se tra questi c’è anche qualche sostenitore della sacralità dei confini nazionali…

Il punto è che commentare una notizia ed esprimendo un giudizio senza averne le basi (o farlo solo sull’onda dell’emulazione, oppure riprendendo fonti e post di altri) non è “fare opinione”, ma nella quasi totalità dei casi solo subirla. Scambiare la causa con l’effetto.

Idioti e utili idioti

Secondo l’Enciclopedia Treccani, il termine greco idiótes significa “uomo privato”, in contrapposizione all’uomo pubblico che rivestiva cariche politiche e dunque era colto e capace; il suo significato era quindi “inesperto, non competente”. Una constatazione, più che un’offesa.

Fu Stalin a coniare la locuzione (divenuta di uso comune e politicamente trasversale) utile idiota per indicare coloro che, anche solo per ingenuità, col loro comportamento facevano gli interessi dei partiti nei quali non militavano o delle idee che in realtà li danneggiavano.

Questo per dire che l’idiozia (nella sua accezione più benevola) è una categoria sociale che è sempre esistita. Magari meno ostentata rispetto ad oggi, ma drammaticamente presente nella storia culturale e politica di questo Paese, come in altri.

E che, di guai, ne ha sempre provocati tanti. Troppi.

Massimiliano De Luca
Massimiliano De Lucahttp://www.massimilianodeluca.it
Sono nato a Firenze nel 1968. Dai 19 ai 35 anni ho speso le mie giornate in officine, caserme, uffici, alberghi, comunità – lavorando dove e come potevo e continuando a studiare senza un piano, accumulando titoli di studio senza mai sperare che un giorno servissero a qualcosa: la maturità scientifica, poi una laurea in “Scienze Politiche”, un diploma di specializzazione come “Operatore per le marginalità sociali”, un master in “Counseling e Formazione”, uno in “Programmazione e valutazione delle politiche pubbliche”, un dottorato di ricerca in “Analisi dei conflitti nelle relazioni interpersonali e interculturali”. Dai 35 ai 53 mi sono convertito in educatore, progettista, docente universitario, ricercatore, sociologo, ma non ho dimenticato tutto quello che è successo prima. È questa la peculiarità della mia formazione: aver vissuto contemporaneamente l’esperienza del lavoro necessario e quella dello studio – due percorsi completamente diversi sul piano materiale ed emotivo, di cui cerco continuamente un punto di sintesi che faccia di me Ein Anstàndiger Menschun, un uomo decente. Ho cominciato a leggere a due anni e mezzo, ma ho smesso dai sedici ai venticinque; ho gettato via un’enormità di tempo mentre scrivevo e pubblicavo comunque qualcosa sin dagli anni ‘80: alcuni racconti e poesie (primo classificato premio letterario nazionale Apollo d’oro, Destinazione in corso, Città di Eleusi), poi ho esordito nel romanzo con "Le stelle sul soffitto" (La Strada, 1997), a cui è seguito il primo noir "Sotto gli occhi" (La Strada, 1998 - segnalazione d’onore Premio Mario Conti Città di Firenze); ho vinto i premi Città di Firenze e Amori in corso/Città di Terni per la sceneggiatura del cortometraggio "Un’altra vacanza" (EmmeFilm, 2002), e pubblicato il racconto "Solitario" nell’antologia dei finalisti del premio Orme Gialle (2002). Poi mi sono preso una decina di anni per riorganizzare la mia vita. Ricompaio come finalista nel 2014 al festival letterario Grado Giallo, e sono presente nell’antologia 2016 del premio Radio1 Plot Machine con il racconto "Storia di pugni e di gelosia" (RAI-ERI). Per i tipi di Delos Digital ho scritto gli apocrifi "Sherlock Holmes e l’avventura dell’uomo che non era lui" (2016), "Sherlock Holmes e il mistero del codice del Bardo" (2017), "Sherlock Holmes e l’avventura del pranzo di nozze" (2019) e il saggio "Vita di Sherlock Holmes" (2021), raccolti nel volume “Nuove mappe dell'apocrifo” (2021) a cura di Luigi Pachì. Il breve saggio "Resistere è fare la nostra parte" è stato pubblicato nel numero 59 della rivista monografica Prospektiva dal titolo “Oltre l’antifascismo” (2019). Con "Linea Gotica" (Damster, 2019) ho vinto il primo premio per il romanzo inedito alla VIII edizione del Premio Garfagnana in giallo/Barga noir. Il mio saggio “Una repubblica all’italiana” ha vinto il secondo premio alla XX edizione del Premio InediTO - Colline di Torino (2021). Negli ultimi anni lavoro come sociologo nell’ambito della comunicazione e del welfare, e svolgo attività di docenza e formazione in ambito universitario. Tra le miei ultime monografie: "Modelli sociali e aspettative" (Aracne, 2012), "Undermedia" (Aracne, 2013), "Deprivazione Relativa e mass media" (Cahiers di Scienze Sociali, 2016), "Scenari della postmodernità: valori emergenti, nuove forme di interazione e nuovi media" (et. al., MIR, 2017), Identità, ruoli, società (YCP, 2017), "UniDiversità: i percorsi universitari degli studenti con svantaggio" (et. al., Federsanità, 2018), “Violenza domestica e lockdown” (et. al., Federsanità, 2020), “Di fronte alla pandemia” (et. al., Federsanità, 2021), “Un’emergenza non solo sanitaria” (et. al., Federsanità, 2021) . Dal 2015 curo il mio blog di analisi politica e sociale Osservatorio7 (www.osservatorio7.com), dal 2020 pubblicato su periodicodaily.com. Tutto questo, tutto quello che ho fatto, l’ho fatto a modo mio, ma più con impeto che intelligenza: è qui che devo migliorare.

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