Sino alla metà del XX secolo, le notizie erano diffuse dai giornali e dalla radio. Il basso livello di alfabetizzazione – assieme ai limiti imposti dalla censura degli editori – trovava come unico elemento di mediazione l’appartenenza politica.
La mediazione culturale dei partiti
Le generazioni di quegli anni, più che informarsi, tendevano ad allinearsi all’interpretazione dei partiti in cui si riconoscevano.
Erano gli anni della grande contrapposizione tra Democrazia Cristiana e Partito Comunista. La complessità della politica internazionale si risolveva nella disputa tra il modello di sviluppo capitalista e il socialismo reale. Quella della politica interna, tacendo i compromessi che inevitabilmente contaminavano queste due visioni della società.
La militanza totalizzava l’intera esperienza sociale, delineando appartenenze a cui ognuno (anche al di fuori dei due grandi partiti di massa) poteva aderire.
La politica a lungo ha permesso a chiunque di non sentirsi culturalmente isolato, favorendo persino il persistere di un clima cattiva informazione, ma anche la scarsa crescita individuale.
L’obiettivo, dichiaratamente, era – come oggi – quello di orientare i voti. E le persone, da sempre, meno sono capaci di sviluppare un pensiero critico, più facilmente sono manipolabili.
La televisione
Poi, con l’avvento della televisione, il fronte dell’informazione si è spostato in avanti, sempre più vicino al pubblico.
Il partito di governo dei primi cinquanta anni della Repubblica (che aveva da subito assunto il controllo della RAI), non riesce ad arginare la trasformazione dell’informazione in merce.
Il politico diviene un personaggio pubblico, e il suo gradimento passa anche dalla sua capacità di padroneggiare la sua presenza sul piccolo schermo che a poco a poco è presente nelle case di tutti gli italiani.
Il dibattito prende il posto della conferenza stampa, il commento della notizia.
Negli anni ‘80 Mediaset diviene la grancassa del partito-azienda di Berlusconi, appoggiandolo quando è al governo, o facendo opposizione attraverso un’informazione finalizzata ad evidenziare la cattiva gestione degli avversari.
Non sono più i partiti che spiegano al cittadino-elettore le scelte di Cuba o quanto avviene alla FIAT, ma le immagini della televisione. L’informazione si fa più capillare, ma gli strumenti per elaborarla restano gli stessi. Dolosamente.
I social
Il punto di non ritorno avviene con la diffusione dei social, che in pochi anni monopolizzano le comunicazioni di massa, grazie alla loro capacità di rispondere a diversi bisogni delle persone: non solo esprimersi quanto sentirsi parte di una comunità, seppure transitoria o fondata su un unico, occasionale, elemento comune.
Le bacheche di Facebook si svuotano di foto delle vacanze e divengono arene di confronto tra chi giudica una notizia di cronaca, un provvedimento di politica economica, o quant’altro.
Giudicare è divenuto un atto compulsivo da cui non è possibile esimersi, senza distinzione tra pubblico e privato; così come intervenire sempre e comunque, magari commemorando, indifferentemente, il parente o il personaggio pubblico scomparso.
Segretamente immedesimandosi nel ruolo di opinion leader: peccato che social come facebook siano frequentati da un paio di miliardi di persone che si reputano tali, in realtà a loro volta orientate da un ristretto team in grado – loro sì – di creare tendenza.
L’informazione su misura
Con la televisione – e i giornali – una riflessione sulle fonti da cui provenivano le notizie era più intuitivo. Fatta salva (generosamente) la buona fede, leggere l’Unità o l’Avvenire, oppure seguire il TG1 e il TG4 già connotava l’orientamento del pubblico.
Oggi, invece, i social, attraverso un algoritmo, filtrano gli infiniti messaggi in virtù degli orientamenti che abbiamo espresso noi stessi, permettendoci di ricevere solo informazioni che rafforzano le nostre convinzioni, generando così una spirale di radicalizzazione del pensiero individuale.
La fine dei dubbi
Esporsi pubblicamente richiede o grande competenza o grande incoscienza. In ogni caso, determina la fine di quella che è l’unica, vera radice del ragionamento: il dubbio.
Ognuno, in questa folle corsa a prendere posizione, si arroga la presunzione di un’opinione, finendo inevitabilmente col cadere nella trappola dell’aderire a quella dominante (o ritenuta tale perché veicolata con forza).
Perché l’opinione dominante permette non solo di non argomentarla, ma anche di sentirsi parte di un gruppo intrinsecamente forte.
Come in ogni epoca, fare proprie le posizioni condivise da altri è il modo migliore per non sentirsi isolati e rimanere fuori dai guai. Che siano sbagliate, poco importa; parafrasando Craxi: tutti colpevoli, nessun colpevole.
Scambiare la causa con l’effetto
Qualche anno fa, improvvisamente, sentimmo il bisogno di modificare la foto del nostro profilo Facebook aggiungendo il logo “siamo tutti Charlie Hebdo”; aldilà della condanna assoluta del gesto terroristico (e soprattutto la pietà umana per le vittime), un meraviglioso esperimento sociale per vedere quanti – che non avevano mai sentito parlare della rivista – avrebbero aderito.
Per colmo di paradosso solo l’anno seguente una vignetta sul terremoto di Amatrice fece bruscamente cambiare opinione a molti simpatizzanti dell’ultima ora, i quali si affrettarono ad affermare che “non erano (piu?) Charlie Hebdo”. Altro esperimento sociale riuscito.
Oggi siamo tutti afgani, e lo saremo fino a quando le prime pagine dei giornali non parleranno d’altro. Peraltro senza mai essere stai curdi, eritrei e tanto meno libici: tutti popoli perseguitati, ma fuori dai riflettori (oppure messi in cattiva luce come “clandestini”). Chissà se tra questi c’è anche qualche sostenitore della sacralità dei confini nazionali…
Il punto è che commentare una notizia ed esprimendo un giudizio senza averne le basi (o farlo solo sull’onda dell’emulazione, oppure riprendendo fonti e post di altri) non è “fare opinione”, ma nella quasi totalità dei casi solo subirla. Scambiare la causa con l’effetto.
Idioti e utili idioti
Secondo l’Enciclopedia Treccani, il termine greco idiótes significa “uomo privato”, in contrapposizione all’uomo pubblico che rivestiva cariche politiche e dunque era colto e capace; il suo significato era quindi “inesperto, non competente”. Una constatazione, più che un’offesa.
Fu Stalin a coniare la locuzione (divenuta di uso comune e politicamente trasversale) utile idiota per indicare coloro che, anche solo per ingenuità, col loro comportamento facevano gli interessi dei partiti nei quali non militavano o delle idee che in realtà li danneggiavano.
Questo per dire che l’idiozia (nella sua accezione più benevola) è una categoria sociale che è sempre esistita. Magari meno ostentata rispetto ad oggi, ma drammaticamente presente nella storia culturale e politica di questo Paese, come in altri.
E che, di guai, ne ha sempre provocati tanti. Troppi.