Nell’epoca dell’informazione istantanea, delle fake news e della post-verità, il giornalista che voglia raccontare la scienza deve innanzitutto sapere individuare l’estensione del concetto di scienza, cioè saper distinguere ed analizzare quelle scoperte, sperimentazioni, teorie che abbiamo il carattere della scientificità.
Nel sintagma “giornalismo scientifico”, la parola “scientifico” non qualifica la modalità dell’attività del giornalista, ma la materia che viene trattata dal giornalista.
Dunque, il primo passo è sia capire cosa è scienza e cosa invece non lo è, sia (ri)conoscere il metodo scientifico, altrimenti andrà sempre più a rafforzarsi (online ed offline) quella percezione di insicurezza, di smarrimento, quell’overload informativo che rende tossico l’ambiente digitale, quindi l’idea che si possa e si debba a tutti i costi parlare di tutto, ovunque, legittimando le tesi più aberranti.
Karl Popper, epistemologo e filosofo austriaco, elaborò il criterio di falsificazione, secondo il quale, una teoria è scientifica solo se è falsificabile, un sistema è empirico solo se controllato dall’esperienza; ciò consente poi alla fine di stabilire una distinzione tra scienza e pseudoscienza, consapevoli del fatto che la scienza può cadere in errore e che la pseudoscienza può, spesso per caso, trovare la verità.
Come criterio di demarcazione, non si deve prendere la verificabilità, ma la falsificabilità di un sistema.
George Claassen , professore presso il Dipartimento di Giornalismo dell’Università di Pretoria (Sudafrica), ha fornito varie indicazioni/raccomandazioni utili per il giornalista scientifico.
Ecco i punti principali del primo vademecum del giornalista scientifico:
-essere accurati nel testo e nel paratesto;
-distinguere la scienza codificata ( conoscenza scientifica consolidata, sulla quale lo scienziato basa la propria ricerca) dalla scienza di frontiera (insieme delle ricerche scientifiche concluse da poco, che quindi non sono state oggetto di controlli da parte della comunità scientifica);
-riconoscere il metodo scientifico e assicurarsi che vi siano sufficienti prove, evitando la pseudoscienza;
-non confondere l’equilibrio con l’equidistanza (essere equidistanti, ma dare credito alla posizione che sia maggiormente confortata da prove scientifiche.
-non accentuare nel racconto solo gli elementi positivi o dare eccessiva importanza a casi singoli e aneddoti;
-essere in grado di leggere la limitatezza di un’indagine scientifica e metterla in relazione con il resto degli studi dello stesso settore;
-non confondere un risultato indiretto con un risultato direttamente riguardante la salute delle persone;
– non ignorare i conflitti d’interesse: è fondamentale domandarsi chi abbia finanziato lo studio.
Nell’era dei Big Data, la verità sembra continuamente spostarsi, dimenticandosi della prova empirica, raggiungendo cosi un sistema di modellizzazione basato sui dati.
La “datacrazia”, di cui parla il sociologo De Kerchove, aiuta la verità, ma solo se c’è piena trasparenza, intesa come impossibilità di rifugiarsi nella menzogna.
Avanza sempre più la necessità di un nuovo ordine politico dove il ruolo responsabile del giornalista e la presenza (e) protezione del whistleblower (individuo che denuncia pubblicamente o riferisce alle autorità attività illecite), siano la base del contratto sociale.