Quelli che oggi vengono (talvolta generosamente) definiti come “influencer”, agli albori della pubblicità venivano chiamati – con un anglicismo di facile interpretazione – “testimonial”.
Trasferire sul prodotto le caratteristiche dei testimonial
Cantanti (Mina), attori (Manfredi, Tognazzi), presentatori (Mike Bongiorno, Enzo Tortora), soubrettes (le gemelle Kessler, Raffaella Carrà). Una lista infinita di volti noti al grande pubblico che trasferiva il loro appeal al prodotto reclamizzato.
Naturalmente, si trattava, ieri come oggi, di un’operazione di marketing, di una finzione: i testimonial (o influencer) vengono ingaggiati e pagati per associare il loro nome ad un marchio nel contesto di una rappresentazione ad uso dei consumatori.
Il rinforzo positivo
Come sempre avviene, il messaggio si basa su un rinforzo positivo, anche a costo di esprimere un paradosso: prodotti dimagranti consumati da persone perfettamente in forma; creme anti-età utilizzate da ragazze giovanissime e via dicendo.
Per non parlare degli stereotipi: uomo di successo-auto/orologio di lusso, donna fatale-profumo, generi alimentari-famiglia felice, prodotti agricoli-nonno contadino, eccetera.
L’immagine non prevede la presenza del consumatore, ma della sua proiezione positiva: per questo qualunque genere di consumo è associato alle caratteristiche dei testimonial: bellezza, forza, gioventù, ma anche autorevolezza.
La testimonianza di qualcosa che non va
Personalmente, sarei portato ad ammettere il principio della libera concorrenza solo se finalizzato alla produzione di prodotti caratterizzati da una qualità sempre migliore, sul piano tecnico, degli ingredienti, della sostenibilità eccetera.
Preferirei – a mia tutela – che non fosse il volto del divo o della diva di turno ad allettarmi, ma le peculiarità intrinseche del prodotto; in definitiva che non ci fosse bisogno di un testimonial.
Perché il solo fatto della sua presenza indirettamente conferma non la bontà di ciò che reclamizza, ma la necessità che il consumatore, per acquistarlo, debba associarlo a lui. Che siamo in presenza di un trucco, insomma, e che il prodotto in sé non sia poi così meritevole.
E le cose si complicano maledettamente quando il personaggio illustre non è chiamato a mostrare la sua predilezione (a pagamento, sia chiaro) per un aperitivo o un dentifricio, ma una scelta che meriterebbe approfondimento, informazione trasparente, riflessione.
Siamo cittadini, non consumatori
La costituzione ci investe della nostra dignità di cittadini: ma vedere personaggi del mondo dello spettacolo interpretare uno spot a favore del vaccino, ci derubrica a consumatori da blandire e convincere aldilà del merito della questione in sé.
Oltretutto associando il messaggio a immagini assolutamente fuorvianti, anche se temprate da parole di cautela (ma ciò che viene recepito è la promessa di un ritorno alla vita di un tempo, senza bisogno di nessuna precauzione):
Stesso discorso per le dichiarazioni rilasciate da persone di chiara fama e autorevolezza, anche istituzionali. Il loro prestarsi ad un ruolo da testimonial (fatte salve le convinzioni personali) in questo caso non appare né congruo al ruolo che rivestono, né opportuno.
Semplificare la complessità
Fare da testimonialalla campagna di vaccinazione semplifica in modo arbitrario – ma perfettamente in linea con l’informazione mainstream di quest’ultimo anno – questioni di trasparenza messe in secondo piano, e riassunte con chiarezza nella lettera scritta dai filosofi Massimo Cacciari e Giorgio Agamben:
Questioni legate ad una informazione in grado di permettere una valutazione individuale tra costi e benefici in relazione all’assunzione di un farmaco. Non ci si vaccina perché un testimonial ha prestato il suo volto (e quindi la sua – supposta – credibilità); e neppure per poter frequentare palestre, biblioteche, assistere a concerti o prendere un aereo.
Ci si vaccina perché – come dovrebbe accadere ogni volta che assumiamo un farmaco – ci sono stati forniti tutti gli elementi necessari per decidere in piena consapevolezza, i possibili benefici ma anche i rischi che corriamo. Lo sanno benissimo coloro che si sottopongono a terapie salvavita.
La parzialità dell’informazione
Comunicazioni contraddittorie, irrigidimento dei protocolli, minaccia di sanzioni per medici e operatori che esprimono posizioni diverse (saranno tutti “bamboccioni senza cervello” come suggerito dall’articolo riportato di seguito?) non creano un clima di fiducia.
Non lo crea sorvolare sulle questioni correlate alla possibilità di effetti collaterali commisurati condizioni di salute del paziente o a lungo termine, allo stato dell’arte dell’iter di sperimentazione, al monitoraggio degli eventi avversi, all’appropriatezza del protocollo di cura.
E neppure negare l’evidenza dell’inesistenza di un presupposto scientifico in grado di sostenere la legittimità giuridica del Green Pass, dato che la stessa AIFA ammette la possibilità (riscontrata dai dati dell’ISS), che le persone vaccinate anche con due dosi sono in grado di infettarsi, ammalarsi ed infettare a loro volta.
O continuare a minacciare un inasprimento dell’obbligo vaccinale nonostante una risoluzione del Consiglio d’Europa (n. 2361 del 2021) che vieta agli stati di rendere obbligatoria la vaccinazione anti covid e di usarla per discriminare i lavoratori.
Aprire il dibattito, non chiudere le porte
Ci sono migliaia di sanitari – addetti ai lavori – che che si dicono perplessi sull’opportunità di vaccinarsi. O che, pure vaccinati, sollevano ragionevoli dubbi:
Le loro ragioni non sono oggetto di un dibattito che potrebbe portare elementi di chiarezza per tutti, anzi, vengono irragionevolmente accusati di essere untori e minacciati di sospensione dal lavoro.
Questo atteggiamento censorio è cavalcato anche da molti organi di informazione (utilizzando in modo spregiativo il termine, di per sé stupido, di “no-vax”), che danno il loro contributo ad una campagna denigratoria dai toni pregiudiziali:
Stesso trattamento è riservato ai medici che hanno fatto esperienza di cure domiciliari, che da mesi stanno cercando di far modificare il protocollo approvato dal Ministero sulla base della loro esperienza sul campo. Medici, non supposti ciarlatani, tuttologi o – va sempre di moda – “antagonisti” (?).
https://www.terapiadomiciliarecovid19.org/
Fiducia, non fede
Questo clima, prodotto un po’ per incuria, un po’ ad arte, ma soprattutto alimentato da chi si erge paladino di scelte che vanno oltre la propria persona, produce divisioni profonde tra cittadini che meritano uguale tutela dei propri diritti.
Divisioni tra chi si pone allineato e coperto – perlopiù convinto dai vari testimonial non solo dell’opportunità di vaccinarsi, ma anche che si tratta di atto di responsabilità sociale (senza spiegarne davvero i motivi) e chi pone dubbi – e i dubbi sono legittimi, sempre, specie se non viene data loro una risposta.
Un clima irrazionale che abbiamo già conosciuto in altre epoche storiche difficili. Irrazionale, perché la scienza è una risorsa preziosissima, in cui riporre fiducia, non una fede; tanto meno se interpretata da testimonial, quali siano.