Chi insulta chi e perché
Deprecabile, condannabile, censurabile e via dicendo il coro razzista che ha fatto saltare i nervi al giocatore francese Kalidou Koulibaly; lo premetto per evitare equivoci.
Però – a chi si scandalizza e invoca anatemi contro le curve degli stadi – chiedo di spiegarmi la differenza tra questo gesto e le offese riservate ad altri giocatori, anche se non riguardano il colore della pelle.
Non c’è differenza, in realtà; a partire dal fatto che esiste un elemento comune tra gli insulti rivolti ad un qualunque calciatore e a quelli di colore: i loro autori (deprecabili, censurabili, condannabili): sono i sostenitori della squadra avversaria.
L’occasione, non il movente
Alcune persone – inqualificabili – nella patrtita contro il Napoli lo scorso 3 settembre a Firenze, non hanno insultato i loro giocatori di etnia africana, ma uno che giocava nella squadra avversaria; se Koulibaly avesse indossato la maglia viola, non sarebbe stato il loro bersaglio.
E se il colore della pelle è solo l’occasione e non il movente dell’offesa, a ragion veduta non possiamo parlare di razzismo. Proprio come quando una donna viene uccisa non in quanto tale ma per motivi diversi (nel corso di una rapina) non si parla di femminicidio.
Ma questa non è una attenuante: al contrario. È la presunzione di una responsabilità ben più estesa.
Non il calcio, ma la vita quotidiana
Razzismo e discriminazione prosperano in contesti culturali tolleranti verso certi atteggiamenti negativi, anche se dettati da mera ignoranza o superficialità nei modi e nel pensare; e che quindi anche queste manifestazioni di cattivo gusto, seppure non razziste in senso lato, contribuiscono a ad alimentarlo.
Ma il cuore del problema è un altro: il motivo per il quale l’occasionale avversario non viene rispettato in quanto tale, ma attaccato (e, per farlo, un attributo con cui appellarlo si trova sempre).
Non sto parlando di calcio, ma della vita quotidiana; e anche di quella che è diventata la politica, che ha mutuato dai tanto bistrattati ultras toni e cori ancora meno adatti a figure istituzionali, restituendo il peggiore esempio.
Ma a chi si scandalizza e invoca anatemi contro le curve degli stadi chiedo quali dovrebbero essere i provvedimenti da adottare per contrastare questo fenomeno.
Far disputare le partite a porte chiuse mi ricorda quella vecchia storia del dito e della luna: in una società dove il razzismo e la discriminazione prospera, considerare la maleducazione che esprime il tifo come qualcosa di diverso da quella che sempre più si impone nelle relazioni tra le persone, mi pare un gesto di enorme ipocrisia.
Fermo restando che la pretesa di imporre l’educazione attraverso un deterrente non funziona né ha mai funzionato. Perché è un problema di cultura, non di repressione.
Lo stadio è solo un pezzo della società
Lo stadio non è una zona franca, ma semplicemente un punto di aggregazione che crea appartenenza e quindi – senza una adeguata mediazione culturale – dei conflitti. Forse sarebbe più utile riflettere a fondo sui valori ai quali è ispirata l’educazione nel suo complesso.
La devianza dalle norme che (dovrebbero!) definire i nostri modelli di comportamento civile sono il frutto di un apprendimento alla socialità che parte da lontano, e trova nella scuola e nella famiglia, i suoi contesti educativi principali.
Reprimere (o solo provare a farlo) alcuni comportamenti che avvengono all’interno degli stadi è la dimostrazione, ancora una volta, che si continua a scambiare l’effetto per la causa, o, se preferite, il sintomo per la malattia.
Proviamo invece a ragionare sui motivi per i quali le persone hanno l’impulso a discriminare, piuttosto che sulla caratteristica a cui strumentalmente si appellano (l’etnia come una caratteristica fisica o personale).
Il razzismo che si sovrappone alla povertà
Fermo restando la ferma condanna per queste esternazioni, mi fa più effetto la quotidiana discriminazione di un qualunque immigrato per le strade delle nostre città, quella che sovrappone ad essa lo stato di povertà.
Con tutto il rispetto per la sensibilità ferita di Koulibaly (e non è un’affermazione retorica), con i suoi 6 milioni di euro l’anno d’ingaggio, credo ci possano essere occasioni più adeguate per ispirare una campagna antidiscriminazione che ha radici più profonde del colore della pelle.
Anche se non fanno notizia perché la vittima non è una persona famosa, ma uno dei tanti che cercano di sopravvivere come possono all’unica colpa che hanno, quella di essere nati nel posto sbagliato nel momento sbagliato.
(Questo articolo è stato pubblicato nel 2018, ed ha per (involontario) protagonista lo stesso calciatore che contro la partita con l’Inter del 31 dicembre era stato insultato; le considerazioni espresse allora mi sembrano ancora attuali. Quasi una metafora: dopo tre anni, siamo sempre allo stesso punto)