“Se comprendere è impossibile, conoscere è necessario”, diceva Primo Levi. Quando si parla di Olocausto si mettono dentro uomini e donne, bambini, anziani: e naturalmente c’erano uomini e donne in ogni campo. Ma quello di cui parliamo oggi è il campo delle donne. Parliamo di Ravensbrück, un nome troppo spesso dimenticato.
Ravensbrück, un inferno dimenticato
Iniziamo dal nome, che significa letteralmente “ponte dei corvi”. Ci troviamo in Germania, 80 km a nord di Berlino. Aperto il 15 maggio 1938, inizialmente era stato concepito come “campo di rieducazione”, per oppositori politici. A novembre dello stesso anno un gruppo di prigionieri di Sachsenhausen, un campo vicino, vennero trasferiti a Ravensbrück per uno scopo ben preciso: convertire quel luogo in una fabbrica di morte.
Le prime prigioniere di Ravensbrück
Il campo era circondato da boschi, ed era costituito di 32 baracche per le internate. Le prime donne a raggiungerlo furono un gruppo di 867 fra austriache e tedesche, circa un anno dopo l’apertura. Le prigioniere venivano da un altro campo, quello di Lichtenburg, ed erano in larga parte comuniste, socialdemocratiche, testimoni di Geova, e anche ariane. Ariane, la cui unica colpa era quella di aver intrattenuto rapporti con persone di razza inferiore. Non solo: alla fine di giugno giungeva un altro convoglio, circa 400 donne di etnia Sinti e Rom, con i loro bambini.
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Lo scoppio della guerra e i nuovi arrivi
Il campo cominciò a riempirsi con lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale. Cecoslovacche, ungheresi, polacche, francesi, italiane, costituivano una “comunità” multietnica. Vicino a Ravensbrück era stato allestito lo stabilimento della Siemens Werke, e qui trovavano lavoro molte delle prigioniere. Molte donne arrivavano al campo incinte, o rimanevano incinte durante la prigionia: in totale nacquero qui 870 bambini, ma pochissimi di loro sopravvissero, anche per la pratica comune di uccidere i feti appena venivano al mondo.
Campo di preparazione
Come ben sappiamo, anche fra le SS c’erano molte donne, e anzi spesso risultavano più spietate degli uomini. La maggior parte di loro venivano “addestrate” a Ravensbrück, facendo esperienza di torture e atrocità, per poi essere mandate in altri campi. Tra il 1942 e il 1945, si stima, ne furono educate 3.500.
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Cavie umane
Ad Auschwitz c’era il dottor Mengele, a Ravensbrück Karl Gebhardt. Gli esperimenti partirono nell’estate del 1942, ed il gruppo di donne “prescelte” venivano denominate Lapines, coniglie. In effetti era proprio così che venivano trattate, come cavie da laboratorio: molte donne non sopravvissero, altre sì ma rimasero sfigurate e invalide a vita. Alcune riuscirono a partecipare al processo che condannava i crimini nazisti, dopo la guerra. Per dare un’idea di ciò che subivano, uno dei tanti esperimenti consisteva nel praticare una ferita sulle gambe con pezzi di vetro o legno, infettandole poi con batteri (quello del tetano, ad esempio). Si sperimentava poi l’uso di diversi farmaci per curare le infezioni.
Krystyna Czyz, il coraggio di un “coniglio”
Una delle donne sottoposte a questi esperimenti fu la prigioniera politica Krystyna Czyz. Insieme ad altre tre donne ideò un sistema ingegnoso per far conoscere al mondo ciò che succedeva nei lager. Le prigioniere potevano comunicare con le famiglie per mezzo di lettere, ma naturalmente queste passavano prima nelle mani delle SS e sottoposte ad attenta censura. Le donne inventarono quindi uno stratagemma semplice ma efficace. Al margine delle loro lettere aggiungevano delle scritte fatte con l’urina, che a contatto con la carta perde colore e odore. Se viene riscaldata, però, le parole tornano visibili: in questo modo poterono rivelare alle loro famiglie il trattamento che ricevevano, e fare nomi e cognomi dei medici coinvolti. Questi dati vennero poi inoltrati ai leader della Resistenza, al governo polacco in esilio e al Comitato Internazionale della Croce Rossa.
Verso la fine della guerra
Heinrich Himmler visitò il campo alla fine del 1944, e si stabilì di eliminare ogni giorno dalle cinquanta alle sessanta donne, per ovviare al problema del sovraffollamento. Nell’aprile del 1945 lo stesso Himmler trattò con il direttore della Croce Rossa svedese, Folke Bernadotte, che riuscì ad ottenere la liberazione di 7.000 prigioniere tra francesi, belghe e olandesi. Il giorno dopo questo accordo il campo veniva evacuato, costringendo le prigioniere rimaste ad una estenuante marcia della morte. Ravensbrück venne liberato il 30 aprile 1945: erano rimaste 3.000 donne, lasciate sul posto perché troppo malate o deboli.
Le testimonianze delle sopravvissute
Per leggere le parole delle donne uscite vive dal campo, chi vi scrive consiglia il libro Il cielo sopra l’Inferno, della scrittrice Sarah Helm, pubblicato nel 2015. Troverete le preziose testimonianze di Lidia Beccaria Rolfi, Lina e Nella Baroncini, Livia Borsi, Bianca Paganini, Maria Massariello Arata, solo alcuni nomi. Ma soprattutto potrete avere un quadro più completo di tutto, anche se potrebbe essere una lettura difficile da affrontare per la crudezza del tema. Ma, sempre per usare le parole con cui abbiamo cominciato, “conoscere è necessario”, anche quando può far male.