In questi ultimi anni sono stati pubblicati i risultati di diverse ricerche che denunciano gli effetti dannosi per l’ambiente di prodotti e abiti derivanti da animali. Di conseguenza, si è assistito ad un aumento della produzione e del consumo di materiali meno inquinanti come la pelle vegana.
Cresce il mercato degli abiti green
Uno studio di Edited ha evidenziato come, in Gran Bretagna, ci sia stato un incremento della vendita di abiti green, con un aumento del 75% dal 2018 al gennaio del 2019. Grand View Research ha invece riportato una proiezione secondo cui il valore di mercato della pelle sostenibile sia destinato ad arrivare a circa 85 miliardi di dollari entro il 2025, rispetto agli attuali 25 miliardi di dollari. Il problema è che, ad oggi, non esistono ancora dei regolamenti specifici sui materiali da utilizzare per avere la pelle vegana. Ad esempio, se si guarda a prodotti di fascia alta come gli abiti o le borse di Stella McCartney, ci si può imbattere in soluzioni ibride che prevedono il ricorso ad una quantità ridotta di poliuretano (PU). L’utilizzo di PU o di PVC da parte di varie aziende non è risolutivo perché si tratta comunque di sostanze che non sono biodegradabili.
Naomi Campbell al fianco dei designer africani
L’evoluzione della pelle vegana
La pelle vegana nel tempo ha avuto diverse denominazioni. Tra la fine degli Anni ’90 e l’inizio dei 2000, è stato usato il termine dispregiativo “pleather” per rimarcare che si trattava di “pelle di plastica”, dunque di qualcosa di falso e artificioso rispetto a quella vera. Adesso quest’accezione negativa è stata messa da parte perché ci si sta rendendo conto che questa può essere un’opzione valida per combattere l’inquinamento. Tuttavia ci sono ancora diversi brand che, per avere la pelle sintetica, usano PU o PVC. Le idee alternative alla vera pelle comunque non sono tutte appartenenti alla storia recente. Dobbiamo risalire infatti alla Germania della fine del XIX secolo per trovare il Prestoff, ottenuto con pasta di carta sistemata a strati. Questo materiale venne introdotto per sopperire alla mancanza di pelle di quel periodo. Tuttavia non ebbe grande fortuna.
Dal Naugahyde alle prime pelli a base vegetale
Diversa fu la sorte del Naugahyde, la prima pelle sintetica lanciata dalla US Rubber Company negli anni ’20 che era molto somigliante alla pelle animale e soprattutto resistente. Intorno agli Anni ’60 poi si passò al cloruro di polivinile (PVC). Trattandosi però di una sostanza piuttosto dura che quindi sarebbe potuta risultare scomoda da indossare, vennero aggiunti dei plastificanti per renderla più elastica. Successivamente il PU scavalcò il PVC nella produzione di abiti e accessori in pelle artificiale perché era più flessibile, anche se presentava uno strato di poliuretano nella sua parte superiore. Questi materiali però sono pur sempre derivanti dalla plastica. Quindi, nel momento in cui le grandi aziende di moda hanno cominciato a pensare a delle alternative davvero sostenibili, si sono rese conto che non potevano più fare ricorso alle suddette sostanze plastiche. E così sono venute fuori le prime vere pelli a base vegetale ricavate da bucce di mela, foglie di ananas, mango, mais, funghi o sughero. La difficoltà in questo caso consiste in un processo produttivo piuttosto complicato e in un prezzo finale più alto del prodotto per il consumatore.
I problemi della pelle vegana
Ovviamente la diffusione della pelle vegana garantirebbe un minore ricorso agli animali. Tra i problemi principali da risolvere però c’è quello riguardante il processo produttivo che quasi sempre non risulta eco-sostenibile. Su tutti, preoccupa il PVC: in questo caso, infatti, si usano soprattutto gli ftalati – che possono risultare tossici – per ammorbidire il materiale. Non a caso, GreenPeace ha ricordato che si tratta del “tipo di plastica più dannoso per l’ambiente”. Inoltre, terminata la produzione, il PVC continua a mettere a rischio la salute del pianeta: rilascia nell’aria gli ftalati e altri fumi tossici (tra cui diossine e BPA) che possono anche comportare delle problematiche per la salute dell’uomo. La scelta del poliuretano (PU) può avere meno rischi rispetto al PVC, ma comunque non siamo di fronte ad una soluzione green. Questa sostanza prevede l’utilizzo di un polimero a base di olio, la cui decomposizione nell’ambiente è lunghissima, si parla addirittura di secoli. Per cercare di ovviare a questa difficoltà, negli ultimi anni si è preferito un rivestimento a base acquosa che, però, non ha cambiato nulla nel processo produttivo altamente inquinante.
La speranza della pelle-bio
Vogue Business ha dato una speranza in più quando ha evidenziato che sta avanzando la cosiddetta pelle bio-fabbricata, ottenuta dal collagene, chiamata anche Zoa. Per adesso non è ancora approdata sul mercato, ma sono numerosi gli esperti del settore e gli addetti ai lavori che sostengono che si tratta di una opzione veramente efficace. Nel frattempo si sta cercando di perfezionare sempre di più la conciatura al vegetale, subentrata alla fase produttiva su base chimica per avere una lavorazione biodegradabile. Kering nel 2018 ha rivelato che la pelle vegana rispetto a quella tradizionale è di un terzo più sostenibile. L’analisi si concentra in particolar modo sulle emissioni provenienti dall’agricoltura e dal bestiame, sullo spreco di acqua e sull’impatto sulla biodiversità. Al contempo, però, ancora adesso la produzione dei materiali sintetici non è affatto sostenibile, infatti questa può ancora rilasciare microplastiche negli oceani e nella catena alimentare, e prevedono sempre un ampio ricorso ad acqua, sostanze chimiche e grandi quantità di energie non rinnovabili. Dunque c’è ancora molto da lavorare, anche se ormai è chiaro che, una volta superate le criticità legate alla produzione, la pelle vegana sarà la strada green da seguire per l’abbigliamento e gli accessori.