L’istinto irrefrenabile di controllare ogni cinque minuti il proprio smartphone per verificare che ci siano nuove notifiche, l’esigenza di essere sempre connessi e la curiosità di scoprire cosa stia accadendo nelle vite virtuali altrui oggi trovano modo di essere identificati in una sola parola: nomofobia.
Questo neologismo è stato coniato al fine di delineare una recentissima patologia che si insinua soprattutto tra le nuove generazioni, in particolare nella fascia d’età compresa tra i 18 e i 25 anni. Il prefisso “nomo” è il diminutivo dell’espressione anglosassone “no-mobile”, ovvero l’assenza di un telefono portatile; mentre, il suffisso “fobia” completa il senso del neologismo, sicché il significato definitivo sarà: paura dell’assenza di un telefono mobile.
Inizialmente posto nelle storiche cabine telefoniche situate lungo le vie, il telefono è entrato poi in casa di ognuno per finire, nel corso dei decenni, con l’essere sempre a portata di mano, di tasca, di borsa, insomma, per essere sempre parte integrante di ogni individuo. Seppur tale strumento sia entrato nella vita di tutti con lo scopo di migliorare le comunicazioni e annullare le distanze, non bisogna trascurare i lati negativi che si nascondono dietro un uso spropositato e morboso del cellulare. Non potrei vivere senza, afferma una donna dipendente dal proprio cellulare e da una vita virtuale che sembra aver preso il sopravvento su quella reale, mi verrebbe l’ansia.
Non è un’esagerazione il fatto che, di recente, alcuni psichiatri abbiano definito la dipendenza ossessiva nei confronti del proprio smartphone come un’allarmante minaccia per la società. L’assenza di tale mezzo di comunicazione causa sintomi ed effetti fisici collaterali paragonabili a quelli di una crisi di panico: ansia e tremore potrebbero subentrare nel momento in cui non si avesse con sé il proprio cellulare. Mancanza di respiro, vertigini, sudorazione, battito cardiaco accelerato, dolore toracico e nausea sono scaturiti dall’idea di non poter mettersi in contatto con chiunque, di non poter controllare la propria vita virtuale e quella altrui, gettando il soggetto in una crisi da disconnessione. Tutto questo è molto più di una semplice fobia: siamo davanti a una patologia. In particolare, la dipendenza dalla connessione è del 50 per cento negli uomini ed è pari al 48 per cento nelle donne.
Siamo lontani anni luce dalle lettere cartacee scritte con cura e spedite al destinatario con la consapevolezza di dover attendere un tempo indefinito prima di ricevere una risposta. La società di oggi ha sostituito la pazienza della corrispondenza epistolare con la foga precipitosa dell’istantaneità, secondo la quale è necessario esser connessi e aggiornati su realtà perlopiù frivole che circondano il mondo virtuale. Quanto possa essere importante ricevere notifiche e avvertire il suono confortante di un messaggio in arrivo? Per un numero oramai eccessivo di persone questo sembra essere un bisogno da colmare non una o due volte al giorno, ma costantemente nel corso di una giornata.
Non possiamo di certo negare i benefici dell’invenzione del telefonino mobile: una rivoluzione nel campo della tecnologia e una svolta nella comunicazione di massa e nell’informatica. Ad ogni modo, quest’eccezionale fenomeno talvolta crea effetti discordanti con la sua funzione primaria, sicché, invece di apportare vicinanza, crea lontananza, spingendo il soggetto a isolarsi nel suo mondo virtuale, fatto di messaggi, chiamate e social network.
La vera rivoluzione, forse, sarebbe quella di educare le nuove generazioni alla disconnessione, invitandole a preferir fissare un panorama piuttosto che lo schermo del proprio cellulare e a vivere la propria vita, non spiare quella altrui.