Due anni fa Giuseppe Conte era uno delle migliaia di professori (mi si permetta) anonimi che animano le nostre università. Non il presidente della Bocconi (come Monti), o il titolare di un prestigiosissimo studio tributario (come Tremonti). Un docente ordinario – nella drammatica media italiana – tra i più giovani, senza un curriculum particolarmente vistoso, né pubblicazioni di spessore internazionale.

Una ascesa repentina e irresistibile
Introduco questi brevi cenni sulla sua esperienza professionale non per connotare un giudizio di merito sulla sua capacità professionale, ma piuttosto evidenziare il contrasto con la sua straordinaria, repentina ascesa.
Non solo Conte verrà ricordato come il primo tra i Presidenti del Consiglio ad aver guidato nella stessa legislatura due governi con due maggioranze di orientamento politico diverso, ma soprattutto averlo fatto durante questa fase drammatica e senza precedenti legata all’epidemia del coronavirus.
Da una cattedra di facoltà ai libri di storia il salto è grande; ancor di più se si pensa che tutto quanto si è svolto in un lasso di tempo ristretto, e, sul filo della metafora, senza nessuna rincorsa.
In questa circostanza, del tutto particolare, si nasconde però il segreto del suo successo. Azzardo una ipotesi, neanche troppo azzardata: i vertici apicali della classe dirigente che guida le democrazie europee e quella americana sono gli agnelli sacrificali di questa vicenda; coloro che, comunque vadano le cose, si prenderanno le responsabilità di quello che sarà andato male, mentre i politici di lungo corso, che adesso sono defilati, aspettano che passi la bufera in attesa di riprendere il loro posto, lasciando sia qualcun altro a fare i lavoro sporco.

L’uomo giusto al posto giusto
Se in Italia c’è ancora qualcuno che pensa che la sua permanenza a capo del governo sia dovuta alla forza con cui risponde agli attacchi che gli arrivano da destra e Sinistra, lo invito a porsi una domanda: davvero credete che le opposizioni vorrebbero essere in questo momento al suo posto? O che Renzi voglia assumersi davvero la responsabilità di queste restrizioni imposte alla popolazione e all’economia?
La risposta è retorica come la domanda: neanche per sogno. Che sia lui a sporcarsi le mani, mentre noi costruiamo nell’opinione pubblica la percezione di aver potuto fare di più e meglio, qualunque cosa voglia dire.

Ogni giorno, sistematicamente, Conte è incolpato delle decisioni che il governo assume, quali siano; e ancor di più lo sarà domani. Domani – a fronte del deficit – si dirà che la colpa è delle restrizioni eccessive che ha imposto; ma anche, riguardo ai morti per il virus, che non ha preso provvedimenti adeguati per tempo.
Tutti quanti lo tirano per la giacchetta: gli scienziati che avvertono dei pericoli di una ripresa del contagio, e gli imprenditori che, non lavorando, rischiano concretamente la bancarotta. Non stupisce se i decreti che si avvicendano contengono misure contraddittorie o definizioni difficilmente interpretabili (come quella dei “congiunti”), frutto di interminabili compromessi al dettaglio.
È evidente che non esiste una soluzione esente da pesanti effetti collaterali; e che tutto corre sul filo delle priorità e del rapporto tra rischi e benefici. Che da una parte ci sono le persone che non possono stare chiuse in casa troppo a lungo e e che non lavorano, e dall’altra una popolazione drammaticamente caratterizzata da un alto tasso di fragilità, anche a causa della sua età media avanzata.
Riaprire le industrie e la circolazione delle persone significa inevitabilmente esporle al pericolo del contagio; diversamente, alla certezza della precarietà economica, ma anche di ricadute psicologiche, e più in generale sociali.

Dead man walking
Insomma: Conte, politicamente parlando è non è l’uomo giusto per tutte le stagioni, ma dead man walking; colui che si sta occupando di gestire questa difficile fase, e che ne sarà travolto, quali siano gli esiti.
E questo lui lo sa, e mi sembra che interpreti il suo ruolo con un piglio che, giorno dopo giorno, si sta facendo sempre più marcato, non tirandosi indietro quando si tratta di esprimere un giudizio su chi lo critica, e neppure di presenziare a dirette televisive di altri tempi, più consone – nell’immaginario collettivo – ad un leader di lungo corso, anziché un outsider della politica. Passerà alla storia, ma come una meteora, la cui massima visibilità coincide con l’inizio della sua fine.
Mi ricorda – mutatis mutandis – la breve ma intensa parabola di “Totò” Schillaci, che nell’arco di un anno, tra il 1989 e il 1990 diviene uno dei calciatori più famosi del mondo, prima passando dall’anonimato del Messina alla ribalta della Juventus, poi divenendo capocannoniere nello sfortunato mondiale italiano, perso per un solo gol subito in tutto il torneo.

Poteva essere il nuovo Paolo Rossi, ma la sua parabola iniziò la fase discendente subito dopo aver toccato l’apice, e due anni dopo abbandonò la platea del campionato italiano per svernare in quello giapponese.
Le meteore sono ricorrenti quanto importanti nella storia dell’uomo: si racconta che guidò i re Magi la fatidica notte di Natale dell’anno Zero. Poi, raggiunto l’obiettivo, di quella luce non ci fu più bisogno.