C’è qualcosa di più interessante di come le persone (e le Istituzioni) hanno reagito alla notizia dei primi contagi dovuti al coronavirus: è il modo con il quale stanno affrontando il perdurare nel tempo della situazione.
Dall’incetta di prodotti alimentari (persino materie prime, come la farina per il pane) e di disinfettante, dal chiudersi in casa ed azzerare la vita sociale siamo passati prevedibilmente all’insofferenza per un modo di vivere – e di concepire la quotidianità della sicurezza – difficile da sostenere.

Fortunatamente (ma anche prevedibilmente) il contagio non produce nella maggior parte dei casi altro che sintomi lievi; e il fatto che – come accade sempre in questi casi anche le per le forme influenzali consuete – le persone a rischio siano quelle più fragili, restituisce ai più un senso di ipocrita sicurezza perfettamente antagonista alle misure cautelari.
L’adrenalina della “grande emergenza” si è trasformata nell’arco di una sola settimana in aperta insofferenza. Eppure il quadro non è cambiato; sbaglia chi sottovaluta i problemi legati al coronavirus: contenere il contagio significa permettere al Servizio Sanitario di rispondere in modo adeguato ai casi che richiedono cure ospedaliere. Se aumentasse in modo significativo la richiesta di ricoveri in rianimazione, molti rischierebbero di non poter essere curati, e diverrebbero a rischio di vita.

Ma la tensione tra la popolazione è scesa: la diretta giornaliera di contagiati e vittime non ha più la presa dei primi giorni in cui tutti si sentivano minacciati, anche se si tratta più che altro di una percezione. E – a cambiare atteggiamento – sono stati anche alcuni rappresentanti delle Istituzioni: gli stessi, peraltro, che avevano soffiato nei primi giorni sul fuoco della paura e ribadito la natura straniera della minaccia del virus. Gli stessi che ieri parlavano di pandemia, oggi cercano di smorzare i toni paragonandolo ad una “banale influenza”. Prima sbagliavano per eccesso, oggi per difetto.
Quello che è cambiato ribadisce ancora una volta come la nostra società (mi riferisco all’Occidente tutto) sia improntata sulle esigenze dell’economia che ne modella la struttura. E questo significa che, mentre i valori vengono continuamente messi in discussione, la macchina produttiva non può essere assolutamente né fermata, tanto meno criticata. Così la vita – la cui difesa era stata invocata nei primi momenti di drammatiche conferenze stampa (sorvolo sui “cinesi che mangiano i topi” come ha detto qualcuno) – cede il passo alla borsa. Il quesito dei rapinatori gentiluomini di una volta, quelli che, arma alla mano, non rinunciavano ad uno scambio dialettico con le loro vittime.

“O la borsa o la vita” dunque: ed è la sempre la medesima storia dell’Ilva di Taranto, di Porto Marghera, dell’Eternit di Casale Monferrato, dell’ICMESA di Seveso, delle polveri sottili che uccidono in Italia 50.000 persone l’anno. E anche l’infiltrazione della criminalità organizzata nei territori gravati dalla disoccupazione. Il primato delle ragioni dell’economia su quelle della salute, accettato anche da chi ne è vittima. Morire di fame o a causa di un lavoro pericoloso per la salute, o addirittura per la stessa società.
Tra la borsa e la vita, insomma, alla fine è la prima che prevale: semplicemente perché il nostro modello di sviluppo di basa sul consumo e non sul benessere. È una specie di corsa folle senza meta dove la vita emerge a tratti quando siamo costretti a rallentare. Detta così sembra retorica, ma purtroppo non lo è.