Israele cambia la sua visione politica nei confronti della Cina. In particolare, lo Stato ebraico si unisce ai 45 Paesi che condannano Pechino per il trattamento della minoranza musulmana uigura e della comunità Han. Che sia una mossa influenzata dagli Usa? O una reazione alla partnership commerciale del Gigante asiatico con l’Iran? Di certo, Israele ha compiuto la sua scelta. Nonostante prosegua gli affari con Pechino.
Tensioni tra Israele e Cina?
Israele si schiera contro il trattamento disumano della Cina. Oltre che l’incarcerazione forzata della sua minoranza uigura. In effetti, lo Stato ebraico ha firmato la condanna emessa martedì alla 47° sessione del Consiglio per i diritti umani delle Nazioni Unite. Su consiglio di Washington. Il voto ha segnato un cambiamento nel modo in cui Gerusalemme si rapporterà a Pechino sul fronte diplomatico. E non solo. Secondo quanto riferito, la decisione deriva dai due leader israeliani che si avvicenderanno alla guida del nuovo esecutivo: il ministro degli Esteri, Yair Lapid. Nonché il primo ministro in carica, Naftali Bennett.
Pressioni?
Secondo Walla News, non è un caso se la decisione di Gerusalemme arriva dopo le pressioni dell’amministrazione Biden. Il che potrebbe interrompere la precedente tradizione di Israele di salvare le sue relazioni con entrambe le superpotenze. Stando al rapporto dell’agenzia, che cita funzionari israeliani e statunitensi, Lapid avrebbe accolto la richiesta del Dipartimento di Stato Usa di sostenere il provvedimento. Ma solo dopo un lungo dibattito. Dal canto suo, il portavoce del ministero degli Esteri, Lior Hayat, ha confermato a Walla che Israele ha votato a favore della condanna. Nonostante consideri la Cina come uno dei suoi più importanti partner commerciali.
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Israele e la condanna alla Cina
Il provvedimento è promosso dal Canada e firmato da 45 Paesi. Quanto a Israele, si tratta della prima volta che lo Stato ebraico avvalla una misura simile. Secondo alcune fonti diplomatiche, la decisione finale sulla condanna di Pechino sarebbe dovuta a pressioni degli Usa e del Canada. Dal canto loro, i diplomatici cinesi avevano chiesto a Israele di non aderire alla dichiarazione prima del suo rilascio. Questo sulla scorta della cautela dimostrata in passato dallo Stato ebraico nell’assumere provvedimenti sfavorevoli a Pechino.
Cambio di rotta
Di recente, però, gli equilibri sembrano cambiati. Ad esempio, Israele ha avvallato un’indagine dell’Organizzazione mondiale della sanità sull’origine della pandemia di COVID-19, che la Cina sperava di evitare. Altre fonti diplomatiche, invece, ritengono che benché Israele sostenga la condanna per il trattamento riservato agli uiguri, in realtà non si tratti di un cambiamento generalizzato della politica nei confronti di Pechino. In questo senso, il ministero degli Esteri dovrebbe valutare caso per caso la situazione.
Israele e Cina: cambio di guardia
Tuttavia, sin dal suo insediamento Yair Lapid ha voluto rimarcare al mondo il fatto che Israele sia una democrazia liberale. Tanto che il ministro degli Esteri è propenso ad allinearsi con quei paesi che la pensano allo stesso modo, a livello internazionale. Tra cui gli Stati Uniti. Al momento, infatti, Washington sta adottando una linea più dura nei confronti di Pechino. Così come le altre democrazie occidentali. Inoltre, Israele sta seguendo l’esempio della Cina nel modo in cui gestisce le proprie relazioni internazionali.
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A questo punto vale una precisazione. Pur coltivando legami economici con le altre nazioni, la Cina ha votato a scapito Israele nei forum internazionali. Oltretutto, ha fatto pressioni per una dura condanna delle sue azioni e nella Striscia di Gaza, durante l’Operazione Guardiano dei muri del maggio scorso. Contro Hamas. Inoltre, i media cinesi filo statali hanno assunto posizioni anti-israeliane e persino antisemite. Come la narrativa secondo cui i “ricchi ebrei” controllino la finanza e i media statunitensi. il che rifletterebbe un’indebita influenza sul governo degli Stati Uniti.
Israele risponde alla Cina
Dal canto loro, i diplomatici israeliani avevano già risposto alle loro controparti cinesi. Ancora quando l’ufficio di ministro egli Esteri era ricoperto dal predecessore di Lapid, Gabi Ashkenazi. All’epoca i funzionari avevano precisato che tali posizioni non sarebbero state scevre da conseguenze. Dunque, se la Cina separa diplomazia ed economia nei suoi rapporti con Israele, allora l’opinione corrente a Gerusalemme è che lo Stato ebraico possa fare lo stesso nei confronti di Pechino. Eppure, non va dimenticato che il Premier Bennett sia stato uno degli artefici dell’espansionismo economico israeliano in Asia. Specialmente negli anni in cui il leader di Yamina serviva come ministro dell’economia nella coalizione con l’ex primo ministro Benjamin Netanyahu.
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La dichiarazione
Sarebbe irrazionale, oggi, mettere a rischio quel lavoro. Quindi, è probabile che Israele si limiterà ad osservare la reazione della Cina. Soprattutto per vedere se Pechino verrà trattato in modo diverso dalle altre nazioni che hanno firmato la condanna promossa dal Canada. Nonostante il Paese non rientri nei 47 membri dell’UNHRC. Ad ogni modo, tutti i 193 Stati membri delle Nazioni Unite possono rilasciare tali dichiarazioni e firmarle presso l’UNHRC. Quanto alla dichiarazione di Ginevra, essa riporta: “Siamo seriamente preoccupati per la situazione dei diritti umani nella regione autonoma uigura dello Xinjiang“.
La condanna canadese
Martedì, l’ambasciatrice canadese Leslie Norton ha spiegato: “Rapporti credibili indicano che oltre un milione di persone sono state arbitrariamente detenute nello Xinjiang e che esiste una sorveglianza diffusa che prende di mira in modo sproporzionato gli uiguri e i membri di altre minoranze e restrizioni alle libertà fondamentali e alla cultura uigura“. E ancora. “Ci sono anche segnalazioni di torture o trattamenti o punizioni crudeli, disumani e degradanti, sterilizzazione forzata, violenza sessuale e di genere e separazione forzata dei bambini dai genitori da parte delle autorità“.
I crimini perpetuati nei confronti degli Uiguri
Tutti contro una
Secondo Leslie Norton, i 45 paesi firmatari “condividono le preoccupazioni espresse dalle procedure speciali delle Nazioni Unite nella loro dichiarazione del 29 marzo sulla presunta detenzione, lavoro forzato e trasferimenti di uiguri e membri di altre minoranze musulmane“. Mentre “In una lettera pubblicata da esperti delle Nazioni Unite che descrive la repressione collettiva di religiosi e minoranze etniche“, ha precisato l’ambasciatrice. Ciò nonostante Pechino nega tutte le accuse. Piuttosto, descrive le strutture di detenzione forzata come strutture di formazione professionale per combattere l’estremismo religioso.
I Paesi
Va ricordato che né Israele né Usa sono membri del consiglio. Sebbene Washington intenda candidarsi per un seggio all’UNHRC. Al momento, solo 12 membri del consiglio hanno ratificato la dichiarazione. Tra cui Francia, Germania e Regno Unito. Gli altri firmatari dell’iniziativa sono: Albania, Australia, Austria, Belgio, Belize, Bosnia ed Erzegovina. Bulgaria, Croazia, Repubblica Ceca, Danimarca, Estonia e Finlandia. Ancora. Haiti, Honduras, Islanda, Irlanda e Italia. Oltre a Giappone, Lettonia, Liechtenstein, Lituania e Lussemburgo. Ma anche Isole Marshall, Monaco, Nauru, Paesi Bassi e Nuova Zelanda. Norvegia, Palau, Polonia e Portogallo. Proseguendo: Romania, San Marino, Slovacchia, Slovenia, Spagna, Svezia. E infine Svizzera e Ucraina.
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Un appello alla Cina
Da parte sua, Norton ha invitato la Cina “a consentire l’accesso immediato, significativo e senza restrizioni allo Xinjiang per osservatori indipendenti, compreso l’alto commissario, e ad attuare urgentemente le otto raccomandazioni del Comitato per l’eliminazione della discriminazione razziale relative allo Xinjiang, anche ponendo fine alla detenzione arbitraria degli uiguri e membri di altre minoranze musulmane“. In una nota a parte, l’ambasciatrice ha espresso profonda preoccupazione per il “deterioramento delle libertà fondamentali a Hong Kong ai sensi della legge sulla sicurezza nazionale e per la situazione dei diritti umani in Tibet”.
Richieste
Pertanto, ha ribadito Norton, “Chiediamo alle autorità cinesi di rispettare i loro obblighi in materia di diritti umani“. In un’audizione al Congresso a Washington la scorsa settimana, l’ambasciatore degli Stati Uniti alle Nazioni Unite Linda Thomas-Greenfield ha affermato di aver pianificato di “fare luce” sul genocidio e sui crimini contro l’umanità che la Cina sta perpetrando contro gli uiguri musulmani. L’Alto Commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani Michelle Bachelet ha detto lunedì all’UNHRC che spera di concordare i termini per una visita quest’anno in Cina, compreso lo Xinjiang, per esaminare le segnalazioni di gravi violazioni contro gli uiguri musulmani.
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