Vi siete resi conto anche voi che qualunque informazione, da qualunque fonte provenga, non è in grado di aggiungere niente non solo al dibattito pubblico, ma anche all’opinione personale di ognuno?
Negare l’evidenza paga sempre
Un esempio come tanti. Nel maggio del 2010, l’allora premier Silvio Berlusconi intervenne presso la Questura di Milano perché la minorenne nota come “Ruby Rubacuori” (sic), fermata a seguito di una segnalazione, venisse affidata ad una sua persona di fiducia in quanto “nipote” dell’allora leader egiziano Mubarak.
Una storia grottesca nelle premesse ma non nelle conseguenze. Oltre trecento deputati votarono compatti affinché Berlusconi fosse giudicato dal Tribunale dei Ministri, sostenendo che le telefonate di Berlusconi in questura furono telefonate di Stato, perché lui era effettivamente convinto che la ragazza fosse davvero la nipote di Mubarak.
La Corte Costituzionale rigettò la richiesta, e si aprì il processo. Ma Berlusconi ha continuato negli anni a sostenere la sua tesi; con profitto, peraltro.
Il fatto non costituisce reato
Ovviamente la ragazza era tutto fuorché la nipote di Mubarak (che, per colmo di stereotipo, era egiziano, mentre lei di origine marocchina). E che, aldilà della pronuncia dei giudici, è difficile credere alla buona fede di Berlusconi.
Tuttavia la condanna inflitta in primo grado viene ribaltata in appello: assolto dall’accusa di concussione perché “il fatto non sussiste” e assolto da quella di prostituzione minorile perché “il fatto non costituisce reato”.
Nelle motivazioni si dice che non esisteva nessuna prova accertata sul fatto che Berlusconi avesse esercitato un atteggiamento intimidatorio nei confronti del responsabile della questura milanese affinché rilasciasse la minorenne, né che fosse a conoscenza dell’età della ragazza all’epoca dei rapporti sessuali.
https://www.altalex.com/documents/news/2014/11/14/caso-ruby-le-motivazioni-della-sentenza-d-appello
Non c’è stata condanna, ma la sentenza consegna all’opinione pubblica una storia completamente diversa da quella raccontata dall’ex premier, da cui emerge il grave tema della prostituzione minorile.
Per distruggere una carriera politica ce ne sarebbe più che abbastanza. Invece, nonostante l’evidenza dei fatti, e la pesante la condanna inflittagli in primo grado, alle politiche del 2013 il Popolo delle libertà, di cui è leader, prende oltre 7 milioni di voti trascinando la coalizione centro destra ad un testa a testa che la verrà soccombere per soli 125mila voti.
Colpevolisti e innocentisti
Milioni di persone hanno continuato a dare la loro fiducia ad un uomo che – al momento del voto – era stato condannato a sette anni di carcere per reati gravissimi (e persino odiosi)
Poi è sopraggiunta l’assoluzione che comunque ha gettato forti ombre sul politico allora più in vista del Paese, quanto meno a livello morale.
Eppure, incredibilmente, neppure l’evidenza dei fatti sembrò intaccare il consenso nei suoi confronti. Chi lo osteggiava, aggiunse un altro argomento ai molti già in suo possesso; ma chi lo sosteneva continuò a farlo, persino manifestando per il riconoscimento della sua innocenza. Sia gli alleati di centrodestra:
https://tg24.sky.it/politica/2013/0/11/parlamentari_pdl_tribunale_milano_silvio_berlusconi
ma anche semplici cittadini (peraltro con toni particolarmente aggressivi):
Il rigetto dell’informazione
E torniamo così al tema di oggi con una domanda evidentemente retorica: quali notizie sarebbero potute trapelare su (in questo caso) Berlusconi per indurre i suoi sostenitori a fare eventuali valutazioni diverse?
La risposta è semplice: nessuna.
La polarizzazione del dibattito in favorevoli o contrari, ha travolto ogni forma di merito. L’appartenenza, simile al tifo calcistico, è divenuta emotiva e rifugge da logiche razionali (come ad esempio i valori che incarna).
Tutto questo, naturalmente, non è un caso, ma il frutto avvelenato di una combinazione di fattori.
Consapevolezza, comprensione, elaborazione
Primo: la consapevolezza delle fonti da cui si ricava l’informazione in ordine alla loro attendibilità, ma anche alla loro diversificazione.
Gli algoritmi di facebook, ad esempio, selezionano i post sulla base delle caratteristiche del profilo dell’utente, alimentando il fenomeno dell’attenzione selettiva, per la quale noi ci focalizziamo solo su notizie che comprendiamo e/o che rafforzano le nostre opinioni.
Basta leggere uno scambio in una chat per capire quanti cadono in questa trappola.
Secondo: la capacità di comprendere l’informazione. Significa possedere strumenti adeguati per decodificarla, a partire dalla lingua: in Italia mediamente le persone utilizzano 1/1000 circa del vocabolario disponibile.
Terzo: la capacità di elaborarla e quindi di integrarla con le altre che formano il nostro modo di interpretare la realtà.
Non giudizi, ma pre-giudizi
Se non sussistono queste tre condizioni, più che di “giudizio” delle persone, sarebbe corretto parlare di “pre-giudizio” che si rafforza costantemente, radicalizzandosi.
E favorendo fenomeni quali la tendenza di assumere la posizione espressa dalla maggioranza, oppure negare l’evidenza senza distinguere tra fatti e opinioni, dare la preferenza elettorale al leader che più ci assomiglia (o su cui proiettiamo i nostri modelli di successo) aldilà della sua proposta politica.
L’eccesso di informazioni a cui possiamo accedere disorienta, anziché orientare. Parafrasando: abbiamo il pane a sazietà, ma non i denti per masticarlo, anche grazie ai social che ci illudono di conoscere e partecipare, ma che invece stanno sempre di più modificando il nostro modo di pensare.
Ma questo è un argomento tabù. Tutti credono di saperli gestire, proprio come raccontano le persone dipendenti da alcool, droga o quant’altro. Le cose, da dentro, sono difficili da vedere.