Si parla già di populismo, di delusione, di fallimento, di protezionismo.
Il discorso del 45esimo Presidente americano Donald Trump sembra non aver convinto a pieno, almeno questo è il racconto di alcuni esperti di comunicazione politica e dei maggiori media internazionali.
Senza dubbio si fa ancora fatica a vedere Trump nella veste di politico, appare a molti ancora come il noto miliardario imprenditore, ma per cambiare “veste” c’è ancora tempo e tutti noi ci abitueremo, la prima cosa ora da non tralasciare (e sottovalutare) è la comunicazione politica.
Un discorso pubblico più breve rispetto a quello dei suoi predecessori, Obama compreso, ma sicuramente chiaro e deciso il messaggio inviato agli elettori: “oggi è il giorno in cui il popolo torna a comandare(..). Tutto cambia qui, a partire da ora. Questo è il vostro giorno, la vostra festa, il vostro momento. Questo, gli Stati Uniti d’America, è il vostro paese(..).Il 20 gennaio 2017 sarà ricordato come il giorno in cui il popolo è tornato a governare il paese. Le persone dimenticate non saranno più dimenticate”, ha promesso Trump.
Precedentemente, durante la campagna elettorale, in particolare di fronte ai media, la comunicazione di Trump si era maggiormente concentrata sul canale para-verbale e sul linguaggio del corpo.
L’indice che si unisce al pollice quasi a formare il segno “ok”, la sua mano destra sempre alta, postura in avanti, occhi semiaperti, tono aggressivo, rendevano il messaggio forte e convincente e descrivevano il neo presidente come un leader credibile, sicuro di se, empatico.
Oggi il suo corpo è rimasto quasi immobile, sembrava teso, emozionato, il braccio destro e la mano semi aperta accompagnavano però ogni sua parola anche questa volta, nessuna incoerenza sul piano verbale-non verbale, ma sono le parole adesso in primo piano.
La sua politica protezionista già pre-annunciata in campagna elettorale è stato un ritornello che ha caratterizzato il suo discorso, ma la parola “popolo” e “potere”, pronunciate con tono deciso e in modo ricorrente, hanno creato un velo di speranza nei cittadini e almeno per un attimo hanno affievolito quella tensione e quell’odio che l’America contemporanea respira da troppo tempo.
Discorso discutibile da un punto di vista politico-economico, ma la sua comunicazione di certo funziona, è chiaramente efficace e persuasiva, per questo ha vinto, ma stavolta qualcosa è andato storto verso la conclusione.
Purtroppo un grande errore comunicativo-politico è stato compiuto e bisogna riconoscerlo: in un mondo globalizzato, interconnesso digitalmente e meno emotivamente, caratterizzato da propagande d’odio e atti terroristici, gli Stati Uniti (cosi come altri Paesi) non possono permettersi di chiudersi in se stessa.
Ben venga il potere al popolo, cosi come il desiderio di ricostruire il “vecchio e caro sogno americano”, ma questo popolo ha bisogno di comunicare anche al di fuori dei propri confini, con altri popoli.
I problemi di uno Stato oggi sono i problemi di intero mondo, abbiamo accettato di diventare “pubblici”, più aperti alle sfide contemporanee, ovvero “globalizzati” e il tempo ci ha mostrato come la teoria fosse affascinante, ma la pratica molto più complessa: la disuguaglianza socio-economica e i fenomeni violenti, cosi come quelli migratori ad esempio, sono tutt’ora in crescita, come molti sociologi e antropologi hanno dimostrato.
Difficile tornare indietro, oramai si “gioca” tutti insieme.
Che Dio benedica l’America!