Era un deputato nonché segretario del Partito Comunista d’Italia quando, l’8 novembre 1926, Antonio Gramsci fu arrestato dal fascismo in violazione dell’immunità parlamentare. Da quel momento per il politico sardo sarebbe iniziato un vero e proprio calvario che, nell’aprile del 1937, lo avrebbe condotto alla morte dopo le privazioni subite durante gli anni della prigionia. L’arresto di Gramsci rientrò in una strategia di repressione avviata da Benito Mussolini dopo l’attentato che aveva subito a Bologna che non aveva avuto conseguenze per la sua incolumità personale.
Il Duce infatti, per tutta risposta, il 5 novembre sciolse tutti i partiti di opposizione e negò la libertà di stampa. L’8 novembre invece diede ordine di far scattare le manette ai polsi del deputato comunista, dichiarandolo successivamente decaduto insieme ad altri deputati aventiniani. D’altronde, il leader fascista già in precedenza aveva duramente attaccato il suo oppositore, definendolo: «Quel sardo gobbo, professore di economia e filosofia, un cervello indubbiamente potente».

Gramsci, del resto, dopo il delitto Matteotti aveva cominciato a lottare strenuamente per frenare l’avanzata del movimento fascista. Aveva proposto a tutte le forze di opposizione di unirsi in una sorta di Antiparlamento per presentarsi come risposta efficace alla destra a livello istituzionale, aveva provato a stimolare all’azione i Comitati operai e contadini, e aveva anche appoggiato il mondo dell’agricoltura dell’Italia del Sud, fondando un’associazione dedicata a loro.
Il segretario comunista fu raggiunto dalle forze dell’ordine fasciste nella casa della famiglia Passarge, dove aveva preso in affitto una stanza fin dal 1924 per cercare di sfuggire alla stretta e ossessiva sorveglianza della polizia che già da tempo lo pedinava.
Il calvario di Antonio Gramsci dopo l’arresto
Tradotto inizialmente nel carcere romano di Regina Coeli, da quell’8 novembre 1926 Antonio Gramsci non trovò più pace, subendo dei continui trasferimenti da un penitenziario all’altro. Dapprima fu portato al carcere del Carmine di Napoli, poi all’Ucciardone di Palermo, e quindi il 7 dicembre fu confinato all’isola di Ustica. Il 20 gennaio 1927 la polizia lo tenne ammanettato per circa 19 giorni, durante i quali il detenuto fu costretto ad attraversare l’intera penisola passando da una cella all’altra: Palermo, Napoli, Caianello, Isernia, Sulmona, Castellammare Adriatico, Ancona, Bologna. Tutto ciò fino al 7 febbraio, quando fu trasportato a San Vittore, a Milano.

Gramsci rimase nel carcere milanese per poco più di un anno, poi nel maggio del 1928 tornò a Roma dove si tenne il processo all’intera classe dirigente del Partito Comunista d’Italia al Tribunale speciale per la difesa dello Stato. Il pubblico ministero Isgrò, durante la sua requisitoria, parlando dell’ex deputato sardo disse di lui senza alcuna remora: «Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare». In effetti, al termine di un’istruttoria piuttosto discutibile, arrivò una sentenza di detenzione per venti anni, quattro mesi e cinque giorni.
Il processo del fascismo alle colonne portanti del PCI
Il processo ai dirigenti del Partito Comunista cominciò a Roma lunedì 28 maggio 1928. Gli imputati erano 22, e tra questi vi erano alcuni deputati: il segretario Antonio Gramsci, l’avvocato Umberto Terracini, l’impiegato della Ferrovia Mauro Scoccimarro e il litografo Giovanni Roveda.
Antonio Gramsci, il politico pensoso nasceva il 22 gennaio 1891
Tutti erano stati arrestati e tradotti in prigione nell’autunno del 1926. L’attesa per il processo era stata particolarmente lunga perché, nel frattempo, i magistrati militari del Corpo d’armata di Milano avevano ricevuto ordine dal fascismo di far risultare come delitti dei comportamenti politici che, in realtà, all’epoca dei fatti erano leciti. Era stato Mussolini in persona a chiedere agli inquirenti di evidenziare la pericolosità degli imputati per l’incolumità del Paese, e i giudici avevano assecondato la volontà del Duce.
La Corte di giudizio non fu formata da magistrati civili e nemmeno militari. Al loro posto Mussolini aveva chiamato esponenti della Milizia fascista che non erano dei giuristi. Il procedimento non avrebbe previsto alcun grado di giudizio successivo (appello o Cassazione), dunque la sentenza del Tribunale speciale sarebbe stata fin da subito definitiva. L’obiettivo del capo politico del fascismo era probabilmente quello di sfruttare a scopi propagandistici il processo ai comunisti per ottenere soprattutto il supporto dei liberali che stavano manifestando più di un dubbio sull’operato del Duce.

In realtà, durante il dibattimento, la capacità e la preparazione degli imputati permise loro di rovesciare le intenzioni di Mussolini, trasformando un processo organizzato per mettere in cattiva luce il comunismo, in una sede per evidenziare le storture del fascismo. La stampa evitò di dare ampio spazio alla notizia, ad esempio il Corriere della Sera ne parlò soltanto e brevemente in quarta pagina.
I Quaderni e la morte del segretario del PCI
Il duro regime di detenzione al quale era stato sottoposto, minarono la salute di Antonio Gramsci. Lui però non si lasciò andare e non abbandonò la sua battaglia politica. Scrisse infatti i Quaderni del carcere, una raccolta di appunti, riflessioni e studi, la maggior da parte dei quali realizzati durante la prigionia a Bari, nella casa circondariale di Truni, dove rimase dal luglio del 1928 fino al novembre del 1933. Invece scrisse altre pagine dalla clinica di Formia dove rimase ricoverato fino all’agosto del 1935.

Quando fu trasferito in clinica ormai le sue condizioni di salute erano irreversibili. Il 25 ottobre 1934, in base a quanto stabilito dall’articolo 176 del codice penale, all’ex deputato venne concessa la libertà condizionale. Il 27 aprile 1937 Antonio Gramsci morì, ad appena 46 anni, a Roma, nella clinica Quisisana.