Le firme sul cosiddetto Patto di Roma che ha sancito la nascita ufficiale della CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro) vennero apposte il 9 giugno 1944. Eppure la data scelta per celebrare la nascita del sindacato è stata quella del 3 giugno 1944, ma non siamo di fronte a nessuna losca vicenda. Infatti, si tratta del giorno in cui Bruno Buozzi, l’esule socialista che durante il fascismo portò avanti clandestinamente l’attività dell’originaria CGDL (Confederazione Generale del Lavoro) fu ucciso dai nazisti.
Il sindacato originario infatti venne istituito con il Patto di Roma nel 1906, ma sotto il regime fascista fu sciolto anche se proseguì nella sua attività di nascosto proprio grazie all’operato di Buozzi. Nel 1944, quando l’Italia settentrionale era ancora alle prese con l’occupazione nazi-fascista, fu recuperato e rinnovato il Patto di Roma con le firme di Giuseppe Di Vittorio del PCI, Achille Grandi della DC ed Emilio Canevari del PSI, e questo fu l’atto che portò alla nascita della CGIL. Il documento stabilì la costituzione di un sindacato che avrebbe agito su tutto il territorio nazionale (a differenza da quanto accaduto con la precedente istituzione) e che si sarebbe occupato degli interessi dei lavoratori senza alcuna distinzione di tipo religioso o etnico.

Fu un segnale importante di unità da parte di tutte le forze politiche socialiste, comuniste e cattoliche che decisero di fare fronte comune per tutelare i lavoratori ma anche per continuare a portare avanti la battaglia anti-fascista, collaborando a stretto contatto con il Comitato di Liberazione Nazionale (CLN).
CGIL: la scissione dopo l’attentato a Togliatti
L’unità all’interno della CGIL si sfaldò nel 1948 in seguito all’attentato a Palmiro Togliatti, a quei tempi leader del Partito Comunista Italiano. La scissione che avrebbe poi portato alla fondazione di CISL e UIL fu promossa dall’ala cattolico-democratica del sindacato che, guidata da Giulio Pastore (che poi sarebbe diventato segretario della neonata CISL) sostenne che ormai la Confederazione si stava orientando troppo verso un orientamento politico di sinistra, seguendo esclusivamente il PCI e il PSI e trascurando gli altri partiti.
Giuseppe Di Vittorio: padre del meridione
Un momento di tensione ci fu durante il Governo De Gasperi IV, quando la Confederazione Generale del Lavoro, che aveva abbracciato la causa filo-marxista, proposte il cosiddetto Programma Minimo, ovvero un ampio progetto che prevedeva un deciso intervento dello Stato nel settore dell’economia per garantire una distribuzione dei beni più equa a tutti i cittadini. La maggioranza rigettò il programma basandosi su una serie di calcoli effettuati dalla Ragioneria generale dello Stato, secondo i quali per attuare il provvedimento sarebbero servite risorse finanziarie superiori alla metà di tutto il reddito del Paese.
Un altro momento di rottura all’interno della CGIL si verificò nel 1984 quando il Governo Craxi presentò quello che è passato alla storia come il Decreto di San Valentino. La parte del sindacato vicina al PSI (il cui segretario era anche Presidente del Consiglio) decise che avrebbe appoggiato insieme a CISL e UIL il taglio dei «punti di contingenza» presente nel documento. Invece gli esponenti che seguivano il PCI si opposero, dicendosi favorevoli all’introduzione di un referendum abrogativo.
Nel 2003 la Confederazione Generale del Lavoro fu l’unico sindacato a sostenere senza riserve la battaglia di Rifondazione Comunista per il referendum volto all’estensione dei diritti sanciti dall’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Si proponeva, in sintesi, di applicare queste tutele anche ai dipendenti di aziende meno imponenti. Al termine della votazione, però, il referendum non raggiunse il quorum previsto dalla legge.
Nell’ottobre del 2014, la CGIL organizzò una serie di manifestazioni di piazza per protestare contro alcuni provvedimenti varati dal Governo Renzi. Tra questi, nel mirino della Confederazione finirono il Jobs Act e la riforma della scuola firmata dall’allora ministra dell’Istruzione Stefania Giannini.

Circa due anni dopo, nell’aprile del 2016, fu organizzata una raccolta firme per presentare una legge di iniziativa popolare che proponeva l’approvazione di una Carta dei Diritti Universali del Lavoro. Allo stesso tempo, furono presentati tre quesiti referendari che vennero anche pubblicati in Gazzetta Ufficiale il 23 marzo 2016.
Il primo puntava alla cancellazione dei voucher, ovvero i buoni lavoro varati dal Governo per garantire la retribuzione a chi svolgeva attività di breve durata. Questi, però, si erano gradualmente trasformati in una sorta di pagamento senza alcun contratto di lavoro anche ai lavoratori non stagionali, come ad esempio i dipendenti dei call-center. Il secondo chiedeva la reintroduzione della totale responsabilità solidale nel settore degli appalti. Infine, il terzo quesito referendario apriva ad un reintegro di tutti quei lavoratori licenziati senza giusta causa anche dalle aziende che avevano più di cinque impiegati. In altre parole, si voleva arrivare all’annullamento della legge che aveva abolito l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori.
L’iniziativa della CGIL arrivò a raccogliere oltre tre milioni di firme, e nel gennaio 2017 la Corte Costituzionale ammise quelli sui voucher e sulla responsabilità solidale, mentre bocciò quello sull’articolo 18. Tuttavia, non si arrivò al referendum perché nel frattempo era stato votato e approvato un nuovo decreto legge che aveva ormai superato le questioni avanzate dal sindacato.