Si fa un gran parlare delle false notizie diffuse soprattutto attraverso i social media; e anche di quella moderna versione degli opinion leader (per gli addetti ai lavori: Lazarsfeld, Berelson e Gaudet, 1944) che prolifera attraverso il buzz marketing: leggiamo su un forum o su un social media un commento (su un determinato prodotto, ma anche su un fatto) e pensiamo si tratti dell’opinione disinteressata di un utente, e quindi siamo propensi ad attribuirgli autenticità, mentre in realtà è scritto da qualcuno pagato per farlo. Pubblicità, insomma, o addirittura disinformazione mirata.
In realtà alle notizie false siamo assuefatti da sempre. Dalla pubblicità: prodotti per dimagrire, ringiovanire, rinvigorire, apparire più belli che non funzionano; dal cinema, che nonostante la sua esplicita essenza fiction per anni ha ispirato stili di vita, affermando canoni di bellezza e mode; dalla televisione, con la sua narrazione che contamina l’informazione con spettacolo.
Oggi i social permettono a chiunque di essere autore quanto pubblico; di scrivere e diffondere notizie, opinioni, interpretazioni e di leggere quelle degli altri – in uno spazio sconfinato nel quale coesistono culture, sensibilità, intenzioni diverse: dall’accademico che cura il proprio blog al diffamatore seriale. Ma anche – soprattutto – da persone normali che partecipano attivamente a questa catena di Sant’Antonio fatta di fake rispondendo istintivamente a bisogni cognitivi precedenti all’avvento dei social, e persino dei media tradizionali.
Il primo è quello di assolverci dalla sensazione di impotenza che deriva dall’incapacità di gestire le informazioni con cui veniamo a contatto. Il problema è che lo facciamo attraverso il filtro di una attenzione selettiva che ci rende sensibili solo a ciò che si pone come conferma delle nostre opinioni pregresse, come l’arresto di un politico appartenente ad un partito per il quale non abbiamo votato (ma non i guai giudiziari di quello a cui abbiamo dato la nostra preferenza). Oppure a questioni che non ci coinvolgono direttamente, come le prove della sofisticazione di un alimento che non consumiamo (ma non di quello che abitualmente è presente sulla nostra tavola).
Da qui al fake il passo è breve, perché l’obiettivo non è quello di informarsi (o di diffondere una informazione), ma di avvalorare le proprie tesi; e la notizia falsa, che si pone strumentale a questo obiettivo, è la più facile da comprendere ed accettare. Sono preoccupato (e magari arrabbiato) perché un mio parente ha perso il lavoro? ecco che nel web inizia il passa-parola su fantomatici immigrati a cui lo Stato ha trovato una occupazione retribuita. E una volta condiviso lo sdegno (sic!) non si torna indietro, anche una volta dimostrata l’infondatezza dell’informazione: perché in questo pour parler senza regole l’onere della prova è ribaltato: è la veridicità di una notizia che deve dimostrata, non il contrario.
Le possibilità offerte dai social inducono la soddisfazione (fittizia) anche di altri bisogni psicologici. Diffondere una informazione significa infatti assumere un ruolo prestigioso nei confronti della comunità virtuale in cui siamo inseriti, e allo stesso tempo rinforzare la nostra appartenenza ad essa. Spesso con esiti grotteschi, inducendo ad imbarazzanti rilanci di notizie copiate-e-incollate che già sono circolate da tempo, oppure completamente prive di fondamento in modo inversamente proporzionale alla loro (presunta) importanza.
Ecco perché le notizie false si diffondono in modo virale: perché ne abbiamo bisogno, e non solo per compensare le difficoltà della realtà nella quale viviamo, ma soprattutto per ritagliarci un posto in essa.