“Volete che la Catalogna sia uno Stato indipendente in forma di repubblica?”.
Sarà questa la domanda alla quale i cinque milioni degli “aventi diritto” della popolazione catalana saranno chiamati a rispondere domani domenica 1° ottobre.
Un “Si” o un “No”, quello del referendum per l’indipendenza della comunità autonoma spagnola, che, comunque vada, contribuirà a scrivere una pagina significativa del futuro della Spagna e dell’Europa.
Per capire la portata della scelta che i cittadini catalani saranno chiamati a compiere domani, dobbiamo fare un passo indietro e andare alle radici storiche che hanno portato la politica dell’estremità nord orientale della penisola iberica, a dare voce alle istanze indipendentiste.
Dal 1979, la Catalogna è una delle 17 comunità autonome – l’equivalente delle nostre Regioni – della Spagna. Questi enti territoriali hanno competenza su molti aspetti della vita legislativa e normativa delle proprie comunità, pur sempre nei limiti delle norme costituzionali. Esse infatti possono legiferare su temi importanti come educazione, sanità, trasporti, assistenza sociale, ambiente.
Il governo regionale, a nome Generalitat de Catalunya, con sede a Barcellona, è composto da un parlamento e un consiglio esecutivo guidati da un presidente. Il presidente della Generalitat Carles Puigdemont, eletto lo scorso anno, è stato membro del partito indipendentista Convergenza Democratica di Catalogna, scioltosi nel 2016 e confluito in un nuovo soggetto politico denominato Partito Democratico Europeo Catalano, anch’esso con un richiamo forte all’autonomia della regione.
Il 9 giugno scorso, Puigdemont ha annunciato il referendum, vincolante e senza quorum, per l’indipendenza dalla Spagna.
Come già più volte in passato, il governo centrale spagnolo non ha visto di buon occhio la votazione e nel corso delle ultime settimane ha cercato di ostacolarla con ogni mezzo. La Corte costituzionale spagnola ha bollato il referendum come incostituzionale, in quanto sarebbe in netto contrasto con quanto previsto dalla carta fondamentale dello stato che sancisce l’indivisibilità del Regno di Spagna.
Anche Mariano Rajoy, Primo Ministro spagnolo, appoggia la tesi della Corte costituzionale asserendo che il referendum indetto per il 1° ottobre è illegale. Dall’altra parte, i legislatori catalani rimangono fermi nelle loro posizioni e serrano i ranghi pur di far valere il diritto dei propri cittadini di poter decidere sul futuro della regione.
Molte manifestazioni dei sostenitori del “Sì” hanno preso vita in varie città catalane nelle ultime settimane, spesso contrastate dalle forze di polizia spagnole. Alcuni manifestanti hanno accusato Madrid di atteggiamenti autoritari che impedirebbero l’esercizio democratico del voto.
Non è un segreto che la Catalogna abbia una storia, delle tradizioni, una cultura, e soprattutto, una lingua, completamente diverse da quelle della restante parte della nazione spagnola. Solo per fare un piccolo esempio inerente alla lingua, gli abitanti della regione parlano il catalano, una lingua che ha poco in comune con quella ufficiale spagnola.
Oltre ai fattori di carattere culturale e linguistico, uno dei motivi principali che hanno spinto Barcellona verso l’indipendenza è quello economico. Gli indipendentisti catalani hanno aumento i loro consensi in maniera considerevole, proprio durante e dopo la crisi economica mondiale che ha colpito l’Europa e i suoi paesi circa una decina di anni fa.
A partire dalla capitale Barcellona, la Catalogna è infatti una delle regioni spagnole più produttive dal punto di vista economico. L’area catalana è quella dove si concentra il maggior numero di imprese e dove si registra il maggior tasso occupazionale. Essa, infatti, da sola, contribuisce a formare il 20% del Pil nazionale e il suo reddito pro capite è secondo solo alla capitale nazionale: Madrid.
Citando un report dello stesso governo, il Pil del 2015 della sola Catalogna era pari a quello della Finlandia. Capiamo quindi come il tasso d’impatto economico e finanziario della regione sul sistema del Paese sia notevolmente alto.
La Catalogna, più di altre comunità autonome, è chiamata ogni anno a versare una quantità di tasse talmente elevata, rispetto a quanto riceve dallo Stato spagnolo, da indurre gli indipendentisti a parlare di “deficit fiscale” e a valutarlo all’8%. Barcellona ha sempre insistito per avere più autonomia fiscale, ma senza mai trovare un accordo con Madrid.
Gli unionisti del governo centrale spagnolo al contrario, collocano il “deficit fiscale”, citato dagli indipendentisti, tra il 2% e il 6%, e in queste ultime ore starebbero cercando una mediazione con i catalani proprio su questo scivolosissimo terreno di scontro.
Ma gli indipendentisti tirano dritto, e se non ci saranno nuovi incidenti tra i manifestanti e le forze dell’ordine, nulla potrà impedire che il voto si svolga regolarmente.
La legge regionale catalana prevede che in caso di vittoria del “Sì” indipendentista, il Parlamento della Catalogna proceda con la dichiarazione formale di indipendenza alla Spagna. Nel caso in cui vincesse il “No”, gli organi istituzionali della Generalitat de Catalunya verranno sciolti e saranno convocate elezioni anticipate per rinnovare il parlamento catalano.
Per quanto concerne le legge spagnola, invece, la sentenza della Corte costituzionale, che bolla di incostituzionalità il referendum “secessionista”, parla chiaro. Questa sentenza finirà per nullificare il risultato del referendum, qualunque esso sia.
Approdando, infine, al tema sulla permanenza in Europa, gli indipendentisti sembrerebbero decisi a voler rimanere nell’Unione. E’ però da considerarsi che se la Catalogna diventerà indipendente, sarà considerata come uno Stato altro rispetto alla Spagna, alla stregua di un paese extraeuropeo. In questo caso, dovrebbe percorrere da sola l’iter per “tornare” a far parte dell’Unione Europea.
La Commissione europea si è già espressa sul tema del referendum catalano, ma si schiera dalla parte della costituzione spagnola e di quanto da essa sancito.
I riflettori sulla penisola iberica, rimangono dunque accesi.