Il 24 ottobre 1975, nelle sale italiane, esce un film destinato a fare storia: Amici miei
Ancora le stelle. Come l’ho viste la notte scorsa e tante altre notti. Notti, giorni, amori, avvenimenti… ho già sulle spalle un bel fardello di cose passate. E quelle future? Che sia per questo? Per non sentire il peso di tutto questo che continuo a non prendere nulla sul serio? Oppure, che abbia ragione mio figlio? […] Però è stata una bella giornata; bella, libera, stupida. Come quando s’era ragazzi. Chissà quando ne capiterà un’altra…
Perozzi (Philippe Noiret), si sdraia vestito sul letto, già sofferente, e con la mano destra si tira addosso la coperta. Non lo sa ancora, ma per lui non ci sarà più un’altra giornata. Si apre così l’ultimo capitolo della storia, dopo l’ennesimo scherzo che ha offerto loro il pretesto per fuggire qualche ora, ancora una volta, ognuno dalle responsabilità della propria vita, fingendo che tutto sia un gioco senza fine. Nelle sue parole c’è tutto il film, ed anche il preludio alla sua inevitabile, drammatica conclusione: l’ebbrezza della finzione è passata, ed ognuno ritorna a fare i conti con le difficoltà, le delusioni, le responsabilità, l’angoscia che nasce dall’incapacità di dare un senso alla propria esistenza.
Avulso dalla contemporaneità (e dalle complessità) degli anni di piombo, Amici miei ripropone il tema dell’amicizia maschile già affrontato dal regista Monicelli in altri suoi celebri film – I soliti ignoti, La grande guerra, L’armata Brancaleone –, ma questa volta a dominare non è lo spirito cameratesco, né quello di sacrificio, bensì un profondo cinismo che detta le regole del rapporto, ma nel quale anche ognuno di loro può essere, indifferentemente, vittima o carnefice dell’altro, in un crescendo di scherzi, anche crudeli e spesso tutt’altro che innocui, che vanno ad alimentare quell’allegria disperata che ricorda, per certi versi, La grande abbuffata di Ferreri ed il suo riferimento obbligato, il Decameron del Boccaccio.
celebrano fino al parossismo il mito della vita come gioco, esasperandolo e per questo connotando negativamente il suo implicito infantilismo e la sua inadeguatezza ad affrontarla
La trama ruota attorno alle giornate trascorse da un gruppo di cinquantenni fiorentini – oltre al giornalista Perozzi, il conte Raffaello “Lello” Mascetti (Ugo Tognazzi), il barista Necchi (Duilio del Prete), l’architetto Melandri (Gastone Moschin) ed il primario Sassaroli (Adolfo Celi) – che celebrano fino al parossismo il mito della vita come gioco, esasperandolo e per questo connotando negativamente il suo implicito infantilismo e la sua inadeguatezza ad affrontarla – nel solco dell’epopea maschile e maschilista del contesto sociale del bar, dove l’epica delle narrazioni è popolata da stereotipi, personaggi (e non persone), e priva quella continuità nella quale si dispiega il senso delle singole esistenze, proprio come la finzione letteraria o cinematografica; episodi che non ricostruiscono una vita nella sua interezza, ma solo, a tratti, l’animano.
lo scherzo diviene persecuzione , le debolezze dell’altro un’occasione per infierire, le latitanze dai doveri della famiglia la regola
Questa apparente leggerezza con cui i protagonisti affrontano la vita, di per sé potenzialmente eversiva, si rivela artificiosa proprio nella rigida connotazione con cui essi si rapportano al mondo che li circonda: il ruolo della donna è confinato nelle dimensioni di amante o servitrice, la famiglia è una prigione, i figli un fastidio, e, più in generale ogni assunzione di responsabilità viene vissuta come un ostacolo alla dimensione compulsiva del gioco. Gioco che, inevitabilmente, non solo non si pone nessun limite, ma soprattutto, come una droga, per mantenere alto il suo effetto di alienazione dalla vita reale, esige che la posta in gioco si alzi sempre di più; lo scherzo diviene persecuzione (come nelle sequenze in cui compare Bernard Blier), le debolezze dell’altro un’occasione per infierire (la povertà del Mascetti, alleviata, ma anche derisa dagli amici), le latitanze dai doveri della famiglia la regola (moglie e figlia, sempre del Mascetti, lasciate prive di sostentamenti, quella del Sassaroli, abbandonata – anche dal Melandri – assieme alle due bambine); e, dietro l’angolo, la noia rimane sempre in agguato.
La lucida analisi dei personaggi, non toglie però niente alla godibilità del film, seppure nell’artificio dell’assenza di consecutio temporum che mitiga l’inevitabilità delle conseguenze dei diversi episodi che compongono, in modo vagamente articolato, la trama. Amici miei è un film poco contestuale, ma in grado di offrire numerosi elementi di rilevanza sociale perché capace di cogliere e raccontare lo spirito del tempo di un’Italia nella quale non tutti sono schierati nella sanguinosa battaglia che contrappone gli estremismi politici e sociali, ma, delusi – da un lato – di ciò che sono, di quello che hanno fatto, e allo stesso tempo incapaci di andare oltre, non trovano di meglio che fare quadrato e provare, in un modo o nell’altro, a dimenticare tutto e tutti, anche se stessi. Gli anni ’80 non sono lontani, e il piccolo gruppo di amici restituisce, singolarmente e nel suo insieme, una complessa panoramica della psicologia maschile in un quadro sociale che, esaurendo la spinta propulsiva degli anni precedenti, mostra i primi segni di cedimento e di stanchezza.
nel tentativo di non farsi ferire dalla vita, non solo si spingono sempre verso l’imprudenza fatale, ma, cosa ancor più grave, non riescono mai ad afferrarne neanche la parte più bella
L’analisi di Monicelli delinea un modo di vivere che, nella coesistenza di spinte opposte – il gioco che rivela la sua inadeguatezza ad affrontare la vita, il desiderio di ferire a oltranza che diviene ferocia autodistruttiva, la sacralità dell’amicizia che trascende nella sua violazione – costantemente è impegnato nel non farsi permeare dalle emozioni più profonde; come i bambini, il cui coraggio irrazionale si alimenta della loro percezione di onnipotenza, i cinque amici, nel tentativo di non farsi ferire dalla vita, non solo si spingono sempre verso l’imprudenza fatale, ma, cosa ancor più grave, non riescono mai ad afferrarne neanche la parte più bella fatta di quelle emozioni che, nella loro visione, sono sinonimo di “responsabilità”, e per questo da rifuggire.